sabato 8 maggio 2010

Gli affari italiani del fondo sovrano Adia di Ahmed bin Zayed al-Nahyan (Morto in circostanze misteriose)


Ritrovato il corpo dello sceicco bin Zayed custode del «tesoro» degli Emirati: è giallo

RABAT (30 marzo) E' stato ritrovato dopo quattro giorni di ricerche il corpo dello sceicco Ahmed bin Zayed al-Nahayan (fratello del presidente degli Emirati), responsabile della Abu Dhabi Investment Authority (Adia, proprietario del 2% di Mediaset) e come tale dunque custode del tesoro della famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti. Sheikh Ahmed bin Zayed al-Nahayan era scomparso venerdì quando il suo aliante era precipitato in un lago nei pressi della diga di Rabat, in Marocco.

La ricostruzione dei fatti: Lo sceicco Ahmed Ben Zayed al Nahyane era il fratello dello sceicco Khalifah Ben Zayed al Nahyane, dirigente dell’Emirato di Abu Dhabi e presidente della confederazione degli Emirati Arabi Uniti, che riunisce sette stati del golfo ricchi di petrolio. Ahmed Ben Zayed al Nahyane, direttore del fondo sovrano di Abu Dhabi, è rimasto vittima di un incidente con un ultraleggero motorizzato alla fine di marzo nella valle del Bouregreg, nella grande regione di Rabat. Il pilota del velivolo - un cittadino spagnolo - era stato recuperato sano e salvo venerdì ed era stato trasferito in una clinica di Rabat. 
Un Giallo che dimostra come, di questi tempi, volare per i potenti signori dell'energia stia diventando una attività rischiosa.
Ci è sembrato interesante recuperare un articolo dello scorso novembre sugli interessi Italiani della famiglia reale degli Emirati.

Grandi affari armati sulla rotta Italia - Emirati Arabi Uniti
Antonio Mazzeo
Fonte: Behablog.it - 20 novembre 2009

Lo sceicco Hamed Al Hamed, membro influente della famiglia reale di Abu Dhabi, è il nuovo proprietario del complesso alberghiero “La Perla Jonica” di Acireale, una delle più prestigiose infrastrutture turistiche della Sicilia e sicuramente la più imponente (trentamila metri quadrati coperti, 460 stanze, numerose ville, un centro congressi, impianti sportivi, ecc.).

Dopo essere appartenuto al costruttore Carmelo Costanzo, uno dei quattro cosiddetti “cavalieri dell’apocalisse mafiosa” di Catania, scomparso da una quindicina d’anni, il centro turistico era sottoposto ad amministrazione controllata. Per tre volte se ne era tentata inutilmente la vendita all’asta. Poi al quarto tentativo si è fatta avanti una misteriosa società con sede a Catania e di cui lo sceicco è il maggiore azionista: ha offerto 46 milioni e 350 mila euro, 30 milioni in meno di quanto erano stati stimati gli immobili, e l’affare si è concluso.

Un mega-albergo al centro di numerose cronache giudiziarie quello de “La Perla Jonica”: fu, ad esempio, il rifugio dorato di uno dei più sanguinari boss mafiosi, Benedetto “Nitto” Santapaola, rappresentante di Cosa Nostra a Catania e storico alleato dei “Corleonesi”, ricercato per efferati delitti compiuti in tutta l’isola. Prima di lui, vi si era nascosto l’anziano padrino Giuseppe Calderone, su cui pendeva la condanna a morte decretata dall’emergente Santapaola. Fu proprio quest’ultimo a chiamarlo il 9 settembre del 1978 per dargli appuntamento nella vicina Aci Castello e vedere di risolvere i problemi sorti all’interno della “famiglia” etnea. Era un tranello; Calderone fu assassinato da un sicario inviato da don Nitto.

Per riportare agli antichi splendori l’infrastruttura di Acireale, la società in mano allo sceicco di Abu Dhabi prevede di spendere una quarantina di milioni di euro. E circola pure la voce che gli arabi stiano per rilevare il vicino complesso termale, puntando al suo rilancio economico ed occupazionale. Solo una voce, è vero, come una voce è quella che circola da quasi un anno nel mondo calcistico sull’offerta di 500 milioni di euro da parte dell’Abu Dhabi United Group for the Development and Investment (ADGDI) per rilevare il 40% del pacchetto azionario del Milan Calcio. Dietro l’operazione ci sarebbe uno stretto congiunto di Hamed Al Hamed, lo sceicco Mansour Bin Zayed Al Nayhan, proprietario della squadra del Manchester City. Comunque vada, gli Emirati Arabi Uniti rappresentano già la mecca della finanza italiana. Stando ai dati forniti dalla Farnesina, il valore delle esportazioni italiane negli E.A.U. è stato nel 2008 di oltre 5,2 miliardi di euro, a fronte di un import di 455 milioni, permettendo così un attivo della bilancia commerciale di 4,7 miliardi di euro. Ci sono poi le cointeressenze societarie con i maggiori gruppi italiani, famiglia Berlusconi in testa. Dal 10 agosto 2007, l’Abu Dhabi Investment Authority, il principale fondo degli emirati, possiede infatti il 2,04% del capitale di Mediaset, ma secondo gli analisti economici, punterebbe a rastrellare un altro 3% delle azioni della cassaforte delle società del presidente del Consiglio.

Attivissima tra emiri e sceicchi è pure la società leader nazionale del settore costruzioni, l’Impregilo di Sesto San Giovanni, che due mesi fa si è aggiudicata la gara internazionale promossa dall’“Abu Dhabi Sewerage Services Company” per la realizzazione del primo lotto di un tunnel idraulico lungo 40 chilometri che raccoglierà le acque reflue di Abu Dhabi per convogliarle alla stazione di trattamento situata ad Al Wathba. Valore della commessa, 243 milioni di dollari. In gara a Dubai per lavori ancora più imponenti (2,7 miliardi di dollari) c’è Fisia Italimpianti, società controllata dal gruppo Impregilo. Si tratta di un megaprogetto integrato che spazia dal trattamento e la desalinizzazione delle acque alla produzione energetica, interamente finanziato dalla “Dubai Electricity and Water Authority (Dewa)”. Tra le agguerrite competitrici di Fisia, una società coreana, una spagnola e l’italiana Saipem del gruppo ENI. La controllata d’Impregilo parte tuttavia in pole position. Essa è presente negli Emirati Arabi Uniti sin dal lontano 1987 e solo ad Abu Dhabi ha già realizzato sette dissalatori. Lo scorso anno Fisia Italimpianti ha pure sottoscritto con l’emirato un contratto per la costruzione di un nuovo dissalatore della capacità di cento milioni di galloni al giorno ed una centrale elettrica di 1.500 MW a Shuweihat, lungo la costa del Golfo Persico.

L’infrastruttura più prestigiosa realizzata dal gruppo di costruzioni italiano resta comunque la moschea di Abu Dhabi, 500 mila metri quadrati di superficie, la più grande al mondo, dedicata allo sceicco Kalifa bin Zayed Al Nahyan, padre dell’odierno capo di stato dell’emirato. Un personaggio pericolosamente legato alle organizzazioni dell’estremismo religioso islamico, lo sceicco Kalifa bin Zayed. Negli anni ’60 divenne grande amico e socio dell’uomo d’affari pachistano Agha Hassan Abedi, il fondatore della BCCI, la Bank of Credit and Commerce International che è stata il più importante centro di “lavaggio” del denaro proveniente dal narcotraffico internazionale e l’istituto più utilizzato dalla CIA per finanziare le operazioni clandestine della Contra in Nicaragua e della resistenza islamica all’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Era da alcune società controllate direttamente dall’emiro che il gruppo di faccendieri internazionali vicini al boss mafioso italo-canadese Vito Rizzuto, sperava di recuperare un credito di un miliardo e 700 milioni di dollari per alcuni lavori effettuati ad Abu Dhabi, da reinvestire poi per la progettazione e l’esecuzione del Ponte sullo Stretto di Messina. L’operazione naufragò proprio alla vigilia della gara d’appalto, quando finirono tutti agli arresti su ordine della Procura di Roma per reati che andavano dal riciclaggio di denaro alla turbativa d’asta. E il consorzio internazionale con capofila l’onnipresente Impregilo ebbe il via libera per aggiudicarsi l’appalto dell’opera più controversa della storia d’Italia.

È tuttavia il business delle armi da guerra il vero eldorado dell’Italia-E.A.U. connection. E non potrebbe essere diversamente. Secondo l’ultimo report del Servizio Ricerche della Library del Congresso USA, nel 2008 gli Emirati Arabi si sono classificati al primo posto tra gli acquirenti di armamenti a livello mondiale, spendendo più di 9,7 miliardi di dollari e superando perfino i “cugini” dell’Arabia Saudita (8,7 miliardi). Il secondo posto tra i mercanti di morte è stato occupato invece dall’Italia che ha trasferito nello stesso anno sistemi di guerra per un importo totale di 3,7 miliardi di dollari, certamente molto meno degli Stati Uniti d’America (37,8 miliardi), ma un po’ più di una superpotenza militare-industriale come la Russia (3,5 miliardi). Il più recente luogo d’incontro tra domanda e offerta l’International Defence Exhibition and Conference - IDEC, tenutasi in febbraio ad Abu Dhabi. Qui il gruppo Finmeccanica ha operato come grande star. Alla presenza di generali, ammiragli, ministri e sottosegretari di Stato, la controllata Agusta Westland ha firmato un contratto di circa 26 milioni di dollari per la vendita alle forze aeree E.A.U. di due elicotteri AW139, mentre la SELEX Sistemi Integrati, attraverso la joint venture “Abu Dhabi System Integration (ADSI)”, si è aggiudicata la fornitura dei sistemi di comando, controllo e sorveglianza che equipaggeranno i nuovi pattugliatori veloci ordinati dalla Marina militare emiratina (valore 70 milioni di euro).

Un altro gioiello di casa Finmeccanica, Alenia Aermacchi, si è accaparrata una commessa di 2 miliardi di dollari per 48 bimotori M-346 “Master” che saranno utilizzati per l’addestramento avanzato dei piloti degli emirati, in vista dell’arrivo dei cacciabombardieri di nuova generazione Eurofighter, Rafale, F-16, F-22 ed F-35 “Joint Strike Fighter”. Nel programma M-346 sono pure coinvolte altre aziende del gruppo Finmeccanica come Selex Galileo, Alenia SIA, Sirio Panel e Selex Communications.

“La selezione degli M-346 di Alenia Aermacchi da parte del Governo degli Emirati Arabi Uniti - ha dichiarato Pier Francesco Guarguaglini, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica - si inserisce nell’ambito di un più ampio accordo di collaborazione industriale recentemente siglato da Finmeccanica e Mubadala Development Company che prevede, tra l’altro, la realizzazione di aerostrutture in materiali compositi per il settore civile presso lo stabilimento che verrà costruito entro il 2010 ad Abu Dhabi”. Mubadala è la società di investimento e sviluppo commerciale con sede ad Abu Dhabi, interamente controllata dalle autorità dell’emirato. Nota per aver acquistato nel 2005 il 5% del pacchetto azionario della casa automobilistica Ferrari, Mubadala è oggi uno dei maggiori partner internazioni del colosso dell’industria bellica statunitense Lockheed Martin; inoltre controlla il 35% del capitale della Piaggio Aereo Industry, altro storico gruppo italiano produttore di mezzi civili e militari, produttore di parti del motore del nuovo caccia strategico F-35.

Da parte sua, il responsabile operativo della company araba, Waleed Al Mokarrab Al Muhairi, ha spiegato che “la strategia commerciale di Mubadala è finalizzata a far crescere l’industria aerospaziale dell’emirato per farne uno dei principali attori a livello globale e Finmeccanica contribuisce a questo progetto con le proprie capacità tecnologiche altamente innovative”. Una partnership che potrebbe trasformarsi in un vero e proprio matrimonio: i manager di Finmeccanica hanno infatti prospettato la possibilità dell’ingresso degli investitori di Abu Dhabi direttamente nel capitale Finmeccanica attraverso il fondo nazionale “Adia”.

Il Parlamento italiano, con voto unanime di centrodestra e centrosinistra, ha assicurato un idoneo quadro normativo per facilitare e blindare tutti i presenti e futuri accordi di cooperazione militare con gli Emirati Arabi Uniti. Dopo il voto al Senato del 24 giugno 2009, il 28 ottobre la Camera ha approvato nel più assoluto disinteresse dei mass media il disegno di legge che ratifica l’accordo di “cooperazione nel settore della sicurezza” firmato sei anni fa dall’allora ministro della difesa Antonio Martino e dal principe ereditario di Dubai e ministro della difesa degli E.A.U., sceicco Mohamed Bin Rashid Al Maktoum. Un accordo di portata storica, non fosse altro per le aberrazioni giuridiche che compaiono nel suo testo. I due paesi affidano ad un “comitato misto” la gestione di tutte le questioni inerenti alle politiche di difesa comuni come ad esempio “le attività addestrative e le manovre militari, l’esportazione e l’importazione di armamenti, l’industria della difesa, la ricerca scientifica, la sanità e lo sport militare, le operazioni umanitarie e di peace-keeping, gli scambi di visite a navi, aerei e unità militari delle due Parti, ecc.”. L’obiettivo chiave dell’accordo resta però l’“esemplificazione delle procedure di trasferimento di armamenti”, la cui dettagliata lista comprende aerei, elicotteri, carri armati e altre componenti terrestri, munizionamenti, bombe, mine, missili, esplosivi e propellenti, satelliti, sistemi tecnologici di comunicazione e per la guerra elettronica. “Tali scambi – si legge in particolare - potranno avvenire per opera delle due Amministrazioni statuali, o anche di aziende private debitamente autorizzate” e, in deroga alla legge che regolamenta l’export di armi italiane, sulla base “di intese tra le parti” sarà possibile il trasferimento dei materiali acquisiti “a Paesi terzi senza il preventivo benestare del Paese cedente”.

Nell’ordine del giorno approvato da 488 deputati sui 502 presenti al voto (14 astenuti) si legge che l’accordo Italia-E.A.U. è “uno strumento fondamentale per rafforzare la cooperazione con un Paese che ha acquisito una crescente importanza per il mantenimento degli equilibri geo-strategici nell’area del Golfo... Gli Emirati Arabi Uniti costituiscono un partner di primaria importanza per le missioni di pace che vedono impegnata l’Italia nelle aree circonvicine; a tal fine hanno concesso l’uso della base aerea di Al Bateen, da cui partono i voli italiani indispensabili per approvvigionare le nostre missioni in Afghanistan”. Nessuno, però, se l’è sentita di ricordare le gravi violazioni dei diritti umani e le discriminazioni di genere, politiche, sociali e razziali che caratterizzano le società emirocratiche. Eppure nel maggio 2009 i cittadini USA erano rimasti profondamente indignati per le immagini trasmesse dalla rete televisiva Abc che mostravano il fratello del presidente degli Emirati Arabi Uniti, Issa bin Zayed al-Nahyan, torturare un uomo per circa 45 minuti. Un crimine ignobile che ha costretto il Dipartimento di giustizia di Abu Dhabi ad aprire un’inchiesta di cui sino ad oggi sono ignoti i risultati.

Questione tutt’altro che secondaria, poi, la permanenza della pena di morte nel sistema giuridico penale degli emirati. Eppure l’articolo 7 dell’accordo di cooperazione Italia-E.A.U., relativamente alle competenze giurisdizionali sul personale, prevede che per le violazioni della disciplina militare, “previo esame congiunto dei vari casi, le infrazioni commesse da personale della Parte inviante verranno punite da quest’ultimo Paese, in base alla propria legislazione”. Ossia, nel caso dei militari arabi, anche con la pena capitale.

Come rilevato dall’on. Matteo Mecacci (Pd) nel corso del dibattito parlamentare di ratifica del Trattato, “il nostro Paese rinuncia alla giurisdizione nei confronti del personale militare degli Emirati Arabi Uniti, secondo delle modalità che non hanno precedenti nell’ambito della nostra legislazione, se non quelli previsti nel Trattato istitutivo della NATO... Non si comprende perché nelle relazioni con questo Paese si prevedano dei privilegi che non sono previsti per tanti altri Paesi nell’ambito dei rapporti bilaterali e nella collaborazione in materia di difesa”. Con grande dote di cinismo i deputati hanno pensato di metterci una pezza, votando un odg che “impegna il Governo a porre in essere, una volta espletate le procedure di ratifica ed entrato in vigore il presente Accordo, l’avvio di un’azione negoziale nei confronti della parte emiratina, protesa ad adattare il testo in materia di applicabilità delle rispettive legislazioni nel panorama giuridico nazionale e internazionale”. I principi sono principi, certo, ma gli affari, si sa, sono affari...

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