sabato 8 maggio 2010

LA MAFIA, LO STATO, LA POLITICA E LA TRATTATIVA. Ecco la cronologia esatta (Parte seconda)


di Federico Elmetti 
Giovedì 04 Marzo 2010 - www.19luglio1992.com

Fine agosto 1992

Continuano, serrati, gli incontri tra don Vito e il colonnello Mori. Mori gli conferma che c'è l'assenso di Violante. Sta bluffando? Sia come sia, don Vito è rincuorato e si mette subito a scrivere una lettera per avere un'audizione ufficiale con Violante. Don Vito inizia un'opera di convincimento nei confronti di Provenzano: è assolutamente necessario che intervenga per mettere fine alla strategia stragista di Riina. Gli dice espressamente: “Riina è impazzito. Il soggetto va tagliato fuori”. Gli fa anche capire che, se Riina è diventato quel che è diventato, è anche responsabilità sua. Ora deve fare qualcosa per rimediare. Provenzano matura così l'idea di vendere Riina ai Carabinieri. Convince don Vito a chiedere a Mori un passaporto perché in futuro possa incontrarlo in Germania, dove vive suo fratello. Provenzano ritiene questa una mossa più prudente, in vista dell'arresto di Riina e della prevedibile reazione dei suoi famigliari.
Il padre riferisce al figlio Giovanni: “Mi hanno fatto capire che devo chiedere il passaporto”. Giovanni rimane visibilmente stupito: il padre aveva una condanna a dieci anni in primo grado. Cerca di spiegargli che, così facendo, potrebbe mettersi in condizione di farsi arrestare per pericolo di fuga. Gli chiede da chi sia arrivata questa richiesta. Il padre si rifiuta di rispondere e gli dice di andare dal professor Campo per farsi preparare un'istanza di richiesta passaporto. Il professor Campo si rifiuta decisamente: la cosa non sta né in cielo né in terra. Ma don Vito fa di testa sua e fa presente a Mori che per poter continuare la trattativa avrà bisogno del passaporto per andare in Germania, dove si sarebbe incontrato con Provenzano. I Carabinieri acconsentono e promettono di attivarsi in tal senso.

Prima meta' di settembre 1992

Massimo fa pervenire al padre un altro pizzino di Provenzano: “Carissimo ingegnere, mi è stato comunicato che gli stessi con cui parliamo adesso, hanno affittato un appartamento di fronte a casa sua. Hanno piazzato un ufficio per sentire e guardare. Ho visto che l’ultima volta ha dormito in albergo. Volevo sapere se anche lei era già stato informato. Dobbiamo essere prudenti anche per il giorno del prossimo appuntamento. Farò sapere io a M.”.
Provenzano ha evidentemente ricevuto una soffiata ed è venuto al corrente che “gli stessi con cui parlano adesso”, ovvero i Carabinieri e i Servizi, hanno affittato un appartamento al terzo piano di Via Sciuti 85 a Palermo (di fronte al palazzo dove abitava don Vito al settimo piano) e vi hanno piazzato una base di ascolto e di osservazione. Ma don Vito già l'aveva saputo da Franco e da tempo dunque dormiva all'hotel Astoria Palace, accanto al Mercato Ortofrutticolo. Notare il cambio fondamentale nel modo di porsi di Provenzano: "Gli stessi con cui parliamo..." E' la prima volta che usa il plurale. Nei tre pizzini precedenti, aveva sempre dimostrato di essere uno spettatore esterno della trattativa ("Se lei pensa che parlare con questa gente ci porti qualcosa di buono, a lei non manca". "Se lei continua a parlarci con questa gente..."). E' un'ulteriore dimostrazione del ruolo attivo che Provenzano assume dopo la strage di Via D'Amelio. Ora è lui a trattare direttamente con i Carabinieri.

25 settembre 1992

Luciano Violante viene eletto Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia.

Ottobre 1992

Avvengono tre differenti incontri tra Mario Mori e Luciano Violante. Nel primo incontro Mori comunica a Violante che Vito Ciancimino vuole a tutti i costi parlargli in privato e che ha anche terminato la stesura di un libro in titolato "Le mafie" che vorrebbe sottoporre alla sua attenzione. Violante risponde che non intende avere incontri riservati. Se don Vito voul parlare, lo puo' fare pubblicamente davanti alla Commissione Antimafia. Nel secondo incontro Mori porta a Violante il libro scritto da don Vito e sollecita di nuovo un incontro tra i due: "Ciancimino potrebbe dire cose molto importanti". Violante ribadisce che Ciancimino, per poter essere ascoltato, deve presentare un'istanza ufficiale. Nel terzo incontro, Violante esprime a Mori il suo giudizio abbastanza negativo sul libro "Le mafie". Non e' un granche', anzi e' abbastanza noioso. Chiede a Mori se sia stata informata l'autorita' giudiziaria di Palermo di questa volonta' di Ciancimino di parlare. Spiega Mori: "Io gli risposi di no, spiegando che intendevo avvalermi della facolta' concessa agli ufficiali di Polizia Giudiziaria ai sensi dell'articolo 203 del Codice di Procedura Penale di non rivelare le proprie fonti confidenziali. Precisai che in quel momento ritenevo doveroso informare della mia attivita' lui che era titolare di una funzione istituzionale equiparabile a quella della magistratura e faceva parte dell'opposizione. Per quanto riguardava l'autorita' giudiziaria di Palermo (...) mi reserbavo di metterla al corrente allorquando il nuovo procuratore della repubblica, come si prevedeva che avvenisse di li' a poco, fosse assunto in funzione. L'onorevole Violante non replico'".

26 ottobre 1992

Si insedia ufficialmente la Commissione Parlamentare Antimafia. Don Vito non perde tempo e il giorno stesso scrive a Violante, chiedendo di essere sentito per dare la sua versione sul delitto Lima, che lui definiva “un avvertimento che va oltre la persona della vittima e punta in alto perché fa parte di un disegno più vasto, che potrebbe spiegare molte altre cose”. Ma pone una condizione: alla sua udizione dovranno essere presenti anche le telecamere televisive.

27 ottobre 1992

Violante riceve la lettera di don Vito, ma ritiene inaccettabile la richiesta delle telecamere. Don Vito si ricrede ed accetta di parlare anche a telecamere spente.

29 ottobre 1992

Si riunisce l’ufficio di presidenza della Commissione Antimafia. Violante propone accertamenti sul delitto Lima e ricorda che “l’on. Ciancimino ha chiesto di essere ascoltato dalla Commissione, rinunciando alla presenza delle televisioni”. Si decide di rimandare l'audizione di don Vito a data da destinarsi.

10 novembre 1992

Si riunisce di nuovo l'ufficio di presidenza della Commissione Parlamentare Antimafia. Si parla di nuovo di Vito Ciancimino, ma non per decidere quando ascoltarlo, bensì si auspica un intervento del Csm affinché siano applicate le misure di prevenzione nei confronti di don Vito.

Metà novembre 1992

Don Vito strappa definitivamente a Provenzano la promessa di rivelare il nascondiglio di Riina. Chiama immediatamente il figlio Massimo e gli dice di ricontattare De Donno per farsi dare il materiale necessario all'individuazione del covo. De Donno si attiva e fa pervenire a don Vito vari tabulati di utenze telefoniche, del gas, dell'acqua, della luce e le mappe catastali di Palermo arrotolate in alcuni tuboni gialli. Don Vito e De Donno si incontrano a Roma. Don Vito acconsente a rivelare il nascondiglio di Riina, ma vuole avere delle precise garanzie. Le ottiene, sia dai Carabinieri che dal signor Franco: Riina verrà preso, ma non dovrà esserne perquisito il covo. In quella casa infatti ci sono contenute troppe carte “che potrebbero far crollare l'Italia”. Riina le considera la sua assicurazione sulla latitanza.
Spiega Massimo: “Una delle preoccupazioni di mio padre e di Provenzano era quella che da anni il Totò Riina si vantava e siccome mio padre, oltre definirlo pericoloso, lo definiva pure inattendibile e megalomane, si vantava che se avessero arrestato lui e preso la sua documentazione, crollava l’Italia; mio padre tutto questo non lo faceva più di tanto credibile, diceva: siccome è pericoloso ed è pure un millantatore, è capace che si scrive le cose da solo, per cui una delle cose, dice, che deve essere chiara è che non deve essere, diciamo, dice: nessuno deve venire in possesso di questo materiale”.

26 novembre 1992

Viene battuta un’Ansa che informa che l’ufficio di presidenza della Commissione Parlamentare Antimafia ha “fatto il punto sul lavoro svolto e sono state tracciate le scadenze future: entro metà dicembre terminerà la fase istruttoria dell’inchiesta sui rapporti tra mafia e politica. Per quella data sarà ascoltato Vito Ciancimino”.

Prima settimana di dicembre 1992

Don Vito raccomanda al figlio Massimo di fare delle copie dei tabulati telefonici e delle cartine topografiche della zona di Palermo-Monreale giù giù fino al Motel Agip (zona passo di Rigano), la zona dove presumibilmente si nasconde Riina. Don Vito spedisce Massimo a Palermo con tutta la documentazione. Massimo la consegna personalmente a Provenzano in zona di Viale Lazio nei pressi di uno studio dentistico.

7 dicembre 1992

Appare un articolo su Il Giornale: “Miglio intona i Vespri Siciliani. La Lega: diamo sovranità all’Isola. Spadolini: fino a questo non potete arrivare”. L'onorevole Gianfranco Miglio, Lega Nord, teorizza l'idea di una lega del Sud autonoma. Esattamente quello che aveva in mente don Vito da tempo e che aveva introdotto nelle contro-richieste al papello: la creazione di un partito del Sud.

8 dicembre 1992

Don Vito e Massimo tornano a Palermo con il preciso intento di ricevere da Provenzano le mappe dove Zu' Binnu ha segnato il covo di Riina.

Seconda settimana di dicembre 1992

Massimo accompagna il padre da Provenzano in zona di Via Leonardo da Vinci. Provenzano consegna loro una busta con dentro tutta la documentazione. Sulle mappe catastali di Palermo ha segnato con un cerchietto il quartiere in cui si trova il covo di Riina ed ha evidenziato con un pennarello delle utenze telefoniche specifiche. Don Vito riparte per Roma, Massimo resta a Palermo con tutta la documentazione. Il giorno dopo riceve ordine dal padre di presentarsi ad un appuntamento sotto lo studio del dottor Braconi. Sul luogo, Massimo trova una macchina. Dentro ci sono Provenzano e un ragazzo, che già aveva visto alcune volte e che era solito fare da autista a Provenzano. Il ragazzo consegna a Massimo una busta contenente una lettera direttamente indirizzata al padre e dei soldi per la famiglia Ciancimino (50 milioni di lire in contanti). De Donno chiama Massimo e lo avvisa che a breve uscirà un'intervista su Panorama in cui si sostiene che l'esito della perizia sul patrimonio sequestrato al padre è positivo. La perizia infatti è stata eseguita dal dottor Di Miceli, un amico dello stesso De Donno. Il capitano del Ros rassicura Massimo e, riferendosi a Di Miceli, dice: “E' l'ultima cosa che fa il commercialista”.

12 dicembre 1992

Compare un articolo sul Corriere della Sera intitolato “Riina e' alle corde e Mancino giura: prenderemo il boss”. Si legge: “Mancino e' categorico perché antepone la cattura di Riina a tutto considerandolo ormai "un obiettivo perseguibile", come dice rivolto al capo della polizia che gli sta accanto nella sala gialla di Palazzo dei Normanni con il presidente della Camera, Napolitano, il superprocuratore Siclari, il capo della Dia, Tavormina, il comandante generale dei carabinieri, Viesti, e il presidente dell'Antimafia, Luciano Violante. Ordine numero uno: catturare Riina. "Si deve perseguire con tenacia questo obiettivo, prefetto Parisi, dispiegando ogni mezzo di indagine - insiste Mancino. La polizia e' ora dotata di strumenti idonei per arrivare alla cattura". Il tono e' quello del monito garbato di chi aspetta risultati concreti nell'arco di poco tempo e Parisi raccoglie con fair play escludendo una messa in mora: "E' uno stimolo. Arrestare Riina e' un obiettivo realizzabile in tempi ragionevoli"”.

14 dicembre 1992

Su Panorama esce l'articolo di cui aveva parlato De Donno. Si intitola “Prossimo il dissequestro dei beni di Ciancimino. Una perizia ne dimostra la totale liceità”. Nel pezzo, si dice che è imminente il dissequestro dei beni di don Vito e che la perizia del dottor Di Miceli dimostrerebbe che in realtà il patrimonio di don Vito non solo non appare sproporzionato, ma anzi addirittura la metà di quello che avrebbe potuto essere in base alle sue reali possibilità imprenditoriali. Tra il passaporto in arrivo e il patrimonio in procinto di essere dissequestrato, don Vito è galvanizzato, entusiasta di come stiano andando le cose. Vede finalmente la luce in fondo al tunnel per i propri problemi giudiziari.

17 dicembre 1992

Don Vito raggiunge di nuovo il figlio Massimo a Palermo per un paio di giorni.

19 dicembre 1992

Don Vito torna a Roma e, appena messo piede sulla terraferma, viene arrestato. Massimo, da Palermo, chiama De Donno per capire cosa stia succedendo. De Donno gli assicura che lui non c'entra niente e che anche lui è all'oscuro rispetto a questo ripristino di custodia cautelare nei confronti del padre. Massimo riparte immediatamente alla volta di Roma con tutta la documentazione datagli da Provenzano. Dal carcere di Rebibbia, Massimo riceve una telefonata. E' ancora De Donno. Si trova lì in cella, insieme al padre. Gli passa don Vito, che lo sollecita a restituire a De Donno le cartine topografiche con su segnato il covo di Riina.

20 dicembre 1992

Don Vito, in carcere, prende carta e penna e scrive una lettera disperata a Provenzano. Dice: “Visto che mi avete usato, ora tanto vale che mi ammazziate. Visto che tu sei in grado di farlo, porta a compimento il tuo lavoro!”. Chiude la lettera e la consegna a Massimo perché la recapiti a Provenzano. Massimo la prende, la ripone in un cassetto e non la consegnerà mai. Questa lettera ora è nelle mani dei magistrati di Palermo.

21 dicembre 1992

Massimo consegna a De Donno le mappe con su segnato il covo di Riina.

10 gennaio 1993

A domanda di un giornalista, Nicola Mancino rivela: “Prendiamo Riina”.

15 gennaio 1993

Il Capitano Sergio De Caprio prende Riina, poco distante dal suo covo, all'altezza della rotonda del motel Agip. Il suo covo non verrà mai perquisito, come da accordi presi. Don Vito, in carcere, si lamenta del fatto di essere stato scavalcato e sostituito, usato e gettato via. Ora viene fatto tutto senza di lui, ma esattamente come lui aveva stabilito. Non si dà pace. Si duole del fatto che se la trattativa fosse stata portata avanti da Violante, le cose non sarebbero finite in quel modo. Commenta con Massimo: “Sono stato fottuto”. Anche l'altro figlio Giovanni va a trovarlo a Rebibbia: “Mai lo vidi abbattuto come in quella circostanza”. C'era infatti la prospettiva che ci rimanesse per molto tempo in carcere. “Disse: - Mi hanno tradito! Mi hanno venduto! - Usò questi termini. Questa frase la ripeté sino all'esasperazione. - Mi hanno tradito! Mi hanno venduto! - Non mi disse mai chi”.
Nelle stesse ore, Gian Carlo Caselli si insedia come nuovo procuratore capo a Palermo.

Fine gennaio 1993

Mentre la procura di Palermo inizia ad interrogare don Vito, lo stesso continua ad incontrare sia Mori che De Donno in carcere. I tre concordano anche di scrivere un memoriale falso di 11 pagine (nel caso avvenisse qualche perquisizione dell'autorità giudiziaria) in cui si farà risalire il loro primo incontro ad una data successiva alla strage di Via D'Amelio. Viene concordato il 5 di agosto 1992. Per la cronaca, quel giorno Massimo nemmeno si trovava a Roma: era partito per le vacanze. Nel memoriale si fa intendere che sia Mori che don Vito, per vari motivi, stavano in realtà bluffando. La trattativa, insomma, era tutta uno scherzo. Don Vito, quando, molti anni dopo, raccoglierà tutto il materiale necessario per la stesura di un libro, allegherà anche questo memoriale e ci appiccicherà un post-it giallo con su scritto: “Falso Rapporto”. Verrà poi effettivamente sequestrato dal dottor Antonio Ingroia nel 2004 durante una perquisizione a casa di don Vito. Don Vito, che non sopporta Ingroia, fa spallucce: “Se lo tenga pure quel memoriale, tanto è un'emerita minchiata!”. Tanto è vero che i verbali di tutti i successivi incontri con Mori verranno catalogati ironicamente da don Vito con la dicitura di “Non-verbali”. Perché in effetti quelli non erano veri verbali. Erano concordati e dettati da Mori a seconda della convenienza. Come, per esempio, il “Non-verbale n.17 del 20 gennaio 1994”.

14 maggio 1993

La reazione di Riina non si fa attendere e si preannuncia violentissima. Lui ora è in carcere, ma i suoi uomini più fedeli e sanguinari sono ancora in circolazione. Suo cognato, Luchino Bagarella, fa sua di fatto la strategia stragista ed è determinato a portarla a compimento. Gli darà una mano il suo gruppo di fuoco, capitanato dai fratelli Graviano, Filippo e Giuseppe. Ed è così che l'Italia inizia a bruciare. Un'autobomba esplode a tarda sera in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. L'esplosione avviene al passaggio di un'auto con a bordo Maurizio Costanzo e sua moglie, Maria De Filippi. Miracolosamente, nessuno rimane ferito. Coincidenza: a pochi passi dall'attentato è parcheggiata una Y10 targata Roma 7A1762. Appartiene a Lorenzo Narracci, uomo dei Servizi Segreti e braccio destro di Bruno Contrada. Coincidenza bis: subito dopo la strage di Capaci, accanto al rottame di un auto, gli agenti della Polizia Scientifica avevano ritrovato un bigliettino con l'annotazione: “Guasto numero 2. Portare assistenza settore numero 2. Gus, via Selci 26, via Pacinotti”. E poi: un numero di telefono, che corrispondeva proprio al cellulare di Lorenzo Narracci.

27 maggio 1993

Un'altra autobomba, questa volta piazzata a Firenze, in via dei Georgofili, sotto la Torre del Pulci, non distante dalla Galleria degli Uffizi, esplode provocando 5 morti.

29 giugno 1993

Viene ufficialmente costituita “Forza Italia! Associazione per il buon governo” presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Gli ideatori sono alcuni noti professionisti, alcuni dei quali inseriti all'interno dell'impero Fininvest e comunque tutti vicini al suo fondatore e proprietario Silvio Berlusconi. Tra di essi compaiono Marcello Dell'Utri, Antonio Martino e Cesare Previti. Il nome è mutuato dallo slogan “Forza Italia” utilizzato nella campagna elettorale della Democrazia Cristiana del 1987.

27 luglio 1993

Nella notte, l'ennesima autobomba, piazzata in via Palestro a Milano, provoca altri cinque morti. Nelle stesse ore altre due autobombe esplodono in rapida successione anche a Roma davanti al vicariato, in piazza San Giovanni, e di fronte alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Non faranno vittime.

18 gennaio 1994

Silvio Berlusconi rompe gli indugi e, dopo mesi di smentite, scende in campo a capo di un nuovo partito politico. Si chiama Forza Italia.

27 gennaio 1994

In un bar di Milano vengono arrestati Filippo e Giuseppe Graviano.

6 febbraio 1994

Secondo il pentito Antonio Scarano, questa è la data in cui gli uomini di Bagarella avevano progettato l'ennesima strage. In occasione della ventiduesima giornata del campionato di calcio, allo stadio Olimpico si disputa Roma-Milan. Una carica di esplosivo avrebbe dovuto far saltare in aria una camionetta dei Carabinieri. L'intenzione era quella di ucciderne almeno un centinaio. Caso vuole che il detonatore faccia cilecca. L'attentato fallisce.

28 marzo 1994

Silvio Berlusconi vince le elezioni politiche. Forza Italia ottiene il 21% dei voti e si afferma come il primo partito italiano.

Aprile 1994

Don Vito si trova in carcere a Rebibbia. Massimo riceve l'ennesima lettera da parte di Provenzano e si reca dal padre in carcere. Non potendogli consegnare documenti, gliela legge mentre il padre la trascrive. E' un foglio A4 indirizzato nuovamente a Marcello Dell'Utri e, per conoscenza, a Silvio Berlusconi. Don Vito ascolta, non commenta e ordina al figlio di nasconderla a casa a Roma nell'ultima pagina dell'enciclopedia Treccani, dove verrà ritrovata solo a seguito di una perquisizione del 2005, ma incredibilmente priva della metà superiore, strappata. Eppure Massimo ricorda di averla sempre vista tutta intera. La parte rinvenuta della missiva recita: “...posizione politica, intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento, Onorevole Berlusconi, vorrà mettere a disposizione una sua rete televisiva.”
Il triste evento che Provenzano prospetta è sempre riferito alla morte del figlio di Berlusconi, in analogia con la prima lettera del 1991. Il testo fa chiaro riferimento ad una vecchia intervista di Berlusconi a Repubblica risalente alla fine degli anni '70 quando Berlusconi, a domanda del giornalista, aveva dichiarato che, nel caso un suo amico avesse deciso di scendere in politica, non avrebbe avuto problemi a mettergli a disposizione una sua rete televisiva. Evidentemente, per Provenzano, è giunto il momento per Berlusconi di adempiere a quella promessa.
Don Vito riscrive la lettera, perfezionandola e modificandola leggermente. La seconda parte della versione manoscritta da don Vito recita: “E p.c. al Presidente del Consiglio dei ministri on. Silvio Berlusconi, ...anni di carcere per questa mia posizione politica, intendo dare il mio contributo (e non sarà modesto) perché questo triste evento non abbia a verificarsi. Sono convinto che se si dovesse verificare questo evento (sia in sede giudiziaria che altrove), l'onorevole Berlusconi metterà a disposizione una delle sue reti televisive. Se passa molto tempo ed ancora non sarò indiziato per il reato di ingiuria, sarò costretto ad uscire dal mio riserbo che dura da anni e sarò costretto e convocherò...”
Questa volta il destinatario è assolutamente leggibile: Silvio Berlusconi, per conoscenza. La minaccia fa riferimento a un triste evento che però non è più la morte del figlio, quanto una possibile inchiesta giudiziaria nei confronti di Berlusconi. Inchiesta che avrebbe potuto prendere il via sulla base delle eventuali dichiarazioni che don Vito avrebbe potuto fare. E infatti don Vito minaccia di iniziare a parlare e di convocare una conferenza stampa per precisare alcune cose. Cosa? Massimo spiega che il padre aveva intenzione di raccontare come la nascita di Forza Italia fosse stata nient'altro che una naturale conseguenza della trattativa.

Primi mesi del 1995

Il colonnello Michele Riccio, un passato glorioso alle dipendenze del generale Dalla Chiesa nel contrasto alle Brigate Rosse, poi per vari anni al Ros insieme a Mario Mori e a un giovanissimo Sergio De Caprio, ora in servizio alla Direzione Investigativa Antimafia (Dia), sfruttando le rivelazioni di Luigi Ilardo, confidente personale, nome in codice “Oriente”, mafioso della famiglia di Piddu Madonia, fa terra bruciata attorno a Provenzano. E' un lupo solitario, il colonnello Riccio. Ama lavorare in piena indipendenza, sfruttando le preziosissime indicazioni del suo confidente. E questo gli provocherà non pochi grattacapi con i suoi superiori. In pochi mesi riesce ad arrestare nell'ordine: Santo Sfameni, Vincenzo Aiello, Giuseppe Nicotra, Domenico Vaccaro, Lucio Tusa e Salvatore Fragapane. Provenzano è alle corde, arroccato nelle campagne di Mezzojuso. Come unico intermediario gli rimane solo Ilardo, il traditore.

24 giugno 1995

Viene arrestato Leoluca Bagarella e sottoposto al regime 41 bis nel carcere dell'Aquila.

Settembre 1995

Il colonnello Riccio torna al Ros come “aggregato” dopo i clamorosi successi ottenuti alla Dia e mette a conoscenza il colonnello Mori delle sue attività investigative volte alla cattura di Provenzano.

Fine ottobre 1995

Ilardo informa Riccio che Provenzano, finalmente, gli ha chiesto un incontro diretto. L'incontro è fissato per il 31 ottobre presso una masseria di Mezzojuso. Ilardo indica a Riccio il luogo esatto. E' il momento che il colonnello Riccio aspettava da anni, il coronamento di tutta una carriera. La cattura di Provenzano sembra ormai cosa fatta.

30 ottobre 1995

In una riunione con i comandanti del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, il colonnello Michele Riccio li mette al corrente della soffiata di Ilardo. C'è la concreta possibilità di catturare Provenzano. Sia Mori che Obinu però non dimostrano alcun entusiasmo. Appaiono alquanto scettici. Alla fine decidono che i Carabinieri si sarebbero dovuti limitare ad una semplice osservazione a distanza dell'incontro. Riccio non ne capisce il motivo, ma obbedisce agli ordini.

31 ottobre 1995

Mori invia il capitano Antonio Damiano con un gruppetto di una decina di uomini nelle campagne di Mezzojuso. Damiano è inesperto delle zone, non conosce assolutamente i luoghi e dispone i propri uomini a distanza di sicurezza dal casolare. Provenzano arriva con Ilardo, l'incontro avviene in tutta tranquillità. Gli uomini di Damiano si limitano a scattare qualche foto da lontano. Provenzano se ne va indisturbato. E sparirà nel nulla per altri undici, lunghissimi anni.

22 marzo 1996

Sull'agenda del colonnello Riccio, a questa data, si legge: “Come sempre enormi difficoltà a stabilire contatti telefonici con lui. Non ho un ufficio e vengo sbattuto da un posto all'altro. Della mafia non gliene frega niente a nessuno”. Riccio è sempre più avvilito della desolante inefficienza che sfocia quasi in immobilità che vige all'interno del Ros. Ha bisogno di comunicare con Ilardo ma non ha a disposizione nemmeno un telefono fisso. Deve fare triangolazioni telefoniche con la moglie.

2 maggio 1996

Ilardo decide finalmente di terminare la sua vita di infiltrato in Cosa Nostra e di collaborare ufficialmente con i magistrati. Avviene un incontro a Roma con i procuratori di Palermo Gian Carlo Caselli e Teresa Principato e il procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra. Poco prima dell'audizione, il colonnello Riccio presenta Ilardo a Mori. Non si erano mai incontrati in precedenza. Ilardo ha una reazione inconsulta. Grande e grosso com'è, gli si scaglia contro dicendo: “Certi attentati commessi da Cosa Nostra non sono stati voluti da noi ma da voi e dallo Stato!”. Mori rimane esterrefatto, non reagisce, volta i tacchi e senza proferire parola esce dalla stanza. Inizia l'audizione con i tre magistrati. Ilardo non ha alcuna fiducia in Tinebra e durante il colloquio si rivolge solamente al procuratore Caselli. Dice di avere cose grosse da raccontare (i legami tra politica, mafia e massoneria) e si dice disponibile ad aiutare i magistrati ad identificare i mandanti occulti delle stragi. L'incontro termina con l'accordo che Ilardo avrebbe iniziato un'ufficiale collaborazione due settimane più tardi. Giusto il tempo di tornare a Catania e sistemare le sue faccende famigliari. Nessun verbale di questo primo colloquio con i magistrati verrà mai redatto.

10 maggio 1996

Ilardo viene ammazzato a Catania. Ricorda il colonnello Riccio: “E lì è stata un'altra fotografia, un altro momento che per tutta la vita non mi abbandonerà mai. Mia moglie mi sente arrivare, mi meraviglia... (…) trovo la porta di casa mia aperta... cioè, mi è sembrato strano. Apro e trovo mia moglie seduta sulla poltrona davanti al Televideo che piangeva. (…) E leggeva in maniera quasi ipnotica la notizia della morte di Ilardo”. A Riccio sembra di “vivere un film”. Una volta riperso dall'emozione, corre al telefono e chiama la moglie di Ilardo, si presenta come “Bruno” (così erano abituati a chiamarlo in codice). La moglie conferma: “Ce l'hanno portato via!”. Nessuno, dal Ros, l'ha avvisato di niente. Allora Riccio prende il telefono e chiama lui Mori: “Scusate, è morto Ilardo e nessuno mi avvisa?!? Io domani scendo giù...”. E così farà.

11 maggio 1996

Riccio prende il primo aereo da Genova e scende di nuovo a Roma. Entra negli uffici del Ros, va di getto verso il colonnello Mori e il generale Subranni e urla: “Siete voi i responsabili! Questa vostra gestione! Il vostro modo di fare! Siete stati voi a causare la sua morte! L'hanno ammazzato per impedire la sua collaborazione!”. Mori appare molto colpito, tenta di confortare Riccio, concorda sul fatto che la morte di Ilardo è stata dovuta ad una più che probabile fuga di notizie sulla sua imminente collaborazione. Il generale Subranni invece non appare per nulla turbato. Anzi, sembra quasi divertito della cosa. Schernisce Riccio ridacchiando e butta lì un'oscura minaccia: “Ti hanno ammazzato il confidente, eh? Stai attento adesso che scendi in Sicilia...” Riccio non ha assolutamente voglia di scherzare: “Guardi che lei non mi spaventa...”

15 maggio 1996

Il colonnello Riccio prende carta e penna, raccoglie tutte le agende dove ha segnato meticolosamente i vari passaggi della sua vita professionale e inizia a redigere rapporto sull'attività svolta negli ultimi mesi al Ros. E' deciso a scrivere tutto quello che sa e che ha capito. Lo chiamerà “Rapporto Grande Oriente”.

20 maggio 1996

Viene arrestato Giovanni Brusca, l'autore materiale della strage di Capaci. Con questo arresto (dopo quelli di Riina, Bagarella e dei fratelli Graviano) si può dire ufficialmente annientata l'ala stragista di Cosa Nostra.

30 maggio 1996

A questa data, sull'agenda personale del colonnello Riccio si legge: “Lavoro in ufficio. Ho controllato i riscontri del Ros. Sono qualcosa di indegno. Obinu, senza dirmelo, voleva addirittura che nascondessi certe informazioni sulle persone che nascondono Provenzano”. Riccio si riferisce al fatto che il capitano Damiano gli aveva detto esplicitamente che gli era stato richiesto dal maggiore Mauro Obinu di fare pressioni su di lui perché togliesse dal rapporto i nomi dei favoreggiatori della latitanza di Provenzano.

4 giugno 1996

Sull'agenda del colonnello Riccio, a questa data, si legge: “Damiano: parlato del lavoro. Sembrano propensi a pensare che la fuga di notizie su Oriente sia dovuta a Tinebra, come del resto è quella più evidente”. Da tempo circolano voci insistenti sul fatto che la fuga di notizie che ha portato all'omicidio di Ilardo sia partita dalla procura di Caltanissetta, subito dopo l'incontro che Ilardo aveva avuto a Roma con i magistrati il 2 maggio.

Luglio 1996

Don Vito si ritrova fra le mani il testo di un progetto di legge che introdurrebbe la possibilità della “dissociazione” per i mafiosi. Glielo ha fatto pervenire direttamente Provenzano, come al solito tramite il figlio Massimo. Don Vito confessa a Massimo: “E' stato Dell'Utri a farlo pervenire a Provenzano per avere un suo parere in merito”.

1 agosto 1996

I senatori Cirami, Bruno Napoli, Nava e Tarolli presentano al Parlamento un disegno di legge in cui chiedono l'istituzione della figura del “pentito-dissociato”, ben distinta da quella del “pentito-collaborante”. Ovvero la possibilità per i mafiosi di accedere a sconti di pena semplicemente professando la propria “dissociazione ideologica” da Cosa Nostra, ma senza rivelare alcunché dei segreti dell'organizzazione criminale.

Primavera 1998

Come periodicamente succede in Italia, esplode il problema delle carceri sovraffollate. Si inizia a parlare di possibili provvedimenti di indulto o di amnistia. Si solleva la polemica politica. Cosa Nostra sta a guardare con occhio interessato. Può essere il primo passo verso uno sconto di pena per i superdetenuti.

Giugno 1998

Il cardinale di Milano Carlo Maria Martini, dopo aver incontrato i detenuti del carcere di San Vittore, si dichiara favorevole all'amnistia, in vista del Giubileo del 2000. Dichiara: “In Israele, il Giubileo era un grande evento di riconciliazione sociale. Per questo sarebbe bello che anche il Giubileo del 2000 si traduca in atti di riconciliazione: penso al problema delle guerre, al debito estero dei paesi poveri, ma anche al carcere”. La prende un po' alla larga, ma alla fine il messaggio è chiaro. E, volente o nolente, arriva potentissimo nelle orecchie di Bernardo Provenzano.

28 giugno 2000

Sul giornale locale “La Nuova Sardegna” compare un'indiscrezione: “Non conterrà una precisa richiesta di provvedimenti di legge a favore dei detenuti, come l'amnistia o l'indulto. Vi saranno tuttavia idee e suggerimenti per un atto di clemenza nei confronti dei carcerati nell'occasione del Giubileo. Si intitola: Messaggio del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II per il Giubileo nelle carceri”. Alla fine dell'articolo si spiega: “All'idea di gesti di clemenza verso i carcerati in occasione del Giubileo si è associata in Italia la Conferenza Episcopale, con alcuni interventi in tal senso del Cardinale Camillo Ruini”. Ecco cosa aveva dichiarato il Cardinal Ruini: “E' avvertita forte l'esigenza di arrivare a misure di clemenza per i detenuti per abbreviare i tempi della pena”.

9 luglio 2000

Il pontefice Giovanni Paolo II, in visita al carcere di Regina Coeli in occasione del Giubileo delle Carceri, chiede ai governanti di ogni parte del mondo “un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti”. Bernardo Provenzano comincia a crederci veramente.

Fine luglio 2000

Provenzano scrive un pizzino illuminante diretto sempre a Vito Cincimino: “Carissimo ingegnere, con l’augurio che vi troviate in uno stato di salute migliore di quando vi ho visto il mese scorso, ho riferito i suoi pensieri al nostro amico Sen. Ho spiegato che loro non possono fare provvedimenti come questi dell'amnistia quando governano loro e che è cosa giusta spingere per fare approvare la legge. L'amico mi ha detto che è stata fatta una riunione e sarebbero tutti in accordo. Ho visto che anche il buon Dio con il Cardinale ha chiesto la stessa cosa”.
Il messaggio è tanto inquietante quanto di facile interpretazione. Sfruttando anche l'assist involontario offertogli dalla Chiesa, Provenzano sta facendo pressione su un suo amico senatore perché in Parlamento si convincano a varare l'amnistia. Non solo. Provenzano si dimostra essere un fine conoscitore delle logiche politiche italiane. Sa che in Italia in questo momento c'è un governo di centro-sinistra (il Ministro della Giustizia è Piero Fassino) ed è dunque il momento più propizio per approvare una legge di questo tipo. Ha infatti già invitato il suo amico senatore, evidentemente di area di centro-destra, ad appoggiare la legge in modo bipartisan. In questo modo, questo provvedimento, che favorisce oggettivamente Cosa Nostra, farà meno scalpore e passerà insospettabilmente con l'accordo di tutti. Se l'avessero fatto “loro”, ovvero un governo di centro-destra, sarebbe stato troppo sfacciato. Don Vito, pochi mesi prima di morire, rivelerà al figlio il nome del senatore amico di Provenzano: sarebbe, manco a dirlo, Marcello Dell'Utri. Don Vito gli rivela che da tempo è al corrente del fatto che il senatore Dell'Utri ha incontri privati con Provenzano. I rapporti tra i due sarebbero “stretti, molto stretti”.

Fine ottobre 2000

Il pontefice Giovanni Paolo II scrive al senatore a vita Giulio Andreotti e gli preannuncia che il 4 novembre, al Giubileo dei Politici, ha intenzione di risollevare la questione della clemenza per i detenuti. Andreotti si farà fare una riproduzione in bronzo della lettera e la conserverà in un mobiletto alla destra della sua scrivania.

18 novembre 2000

Nelle mani del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi arriva una lettera. E' firmata da nove senatori, i tre ex presidenti della Repubblica Giovanni Leone, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, e con loro Giulio Andreotti, Giovanni Agnelli, Norberto Bobbio, Carlo Bo, Francesco De Martino e Paolo Emilio Taviani. Chiedono a gran voce che Ciampi spenda una parola per riaprire il dibattito su indulto e amnistia.

17 luglio 2001

Salvatore Cuffaro (UDC), che da giovane faceva l'autista a Calogero Mannino, viene eletto governatore della Sicilia con il 59% dei voti.

11 settembre 2001

Mentre a New York crollano le Torri Gemelle, Massimo Ciancimino consegna al padre, in cura presso una clinica, l'ennesimo pizzino proveniente da Provenzano. Si legge: “Carissimo Ingegnere, ho letto quello che mi ha dato M. ma a scanso di equivoci ho riferito che ne parlerò quando ci sarà possibile vederci. Mi è stato detto dal nostro Sen. e dal nuovo Pres. che spingeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza. Appena ho notizie ve li farò avere, so che l’av. è benintenzionato. Il nostro amico Z. ha chiesto di incontrare il Sen. Ho letto che lei non ha piacere e bisogna prendere tempo. Si tratta di nomine nel Gas. Mi ha detto che vi trovate in ospedale. Che la salute vi ritorni presto e che il buon Dio ci assista”. Secondo Massimo, il “Sen.” di cui parla Provenzano è sempre Marcello Dell'Utri. Il “nuovo Pres.” invece sarebbe Salvatore Cuffaro, neo presidente della regione Sicilia. In ogni caso, chiunque siano il Sen. e il nuovo Pres., l'argomento di discussione è sempre lo stesso: una legge che possa alleggerire le pene per i detenuti (“spingeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza”).

Tra il 2001 e il 2002

La “pax mafiosa” instaurata da Bernardo Provenzano vige incontrastata. La teoria della “sommersione” sta dando i suoi frutti. Massimo Ciancimino però è preoccupato. Ha paura che venga chiamato a deporre dai Tribunali che da tempo indagano sulle stragi. Si consiglia con De Donno, il quale gli dice ancora una volta che non ha nulla da temere e gli assicura che su tutta la trattativa sarebbe stato apposto il segreto di stato: “Non se ne parlerà almeno per 30 anni...” Non solo. Gli garantisce che non sarebbe mai stato chiamato da alcuna autorità giudiziaria a testimoniare in proposito. Sia lui che il padre avrebbero goduto di una sorta di immunità. Don Vito, da par suo, riceverà esplicita assicurazione dal signor Franco che il procuratore capo a Caltanissetta, Gianni Tinebra, che ha in mano le indagini sulla strage di Via D'Amelio, non chiamerà mai né lui né Massimo a testimoniare. E così infatti accade.
Don Vito, che ormai ha compreso di essere stato tradito, matura l'idea di raccogliere tutta la documentazione relativa alla trattativa per scriverne un libro. De Donno invece chiede più volte a Massimo di far sparire tutto ciò che possa far riferimento alla trattativa. Massimo non ci pensa nemmeno e, mentre raccoglie tutti i documenti utili alla stesura del libro, rinviene anche degli appunti scritti a quattro mani dal padre e dal giornalista Lino Jannuzzi. A pagina 253, dove si parla dei passaggi salienti della trattativa, c'è una glossa a margine dello stesso don Vito che recita: “E' un falso evidente”. Massimo prende nota: inserirà il passaggio nel suo futuro libro a testimonianza dei vari depistaggi concordati di volta in volta con Carabinieri e giornalisti consenzienti.
Sempre in quegli anni, Massimo tenta di convincere il padre a “passare il Rubicone” come diceva lui, ovvero a collaborare con la giustizia. Don Vito però è restio. Promette: “La prima volta che vedrò Andreotti condannato, solo allora inizierò a parlare”.

14 novembre 2002

Il Pontefice Giovanni Paolo II tiene un discorso storico in Parlamento. L'appello del papa è chiarissimo: “Merita attenzione la situazione delle carceri. Un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità”.

17 novembre 2002

La corte d'appello ribalta la sentenza di primo grado. Giulio Andreotti viene condannato per la prima volta per mafia: 24 anni di carcere come mandante dell'omicidio Pecorelli.

19 novembre 2002

Vito Ciancimino, agli arresti domiciliari a Roma, viene trovato morto nella sua camera da letto. Un paio di ore prima aveva telefonato al figlio Massimo. Massimo è sconvolto, non riesce a darsi pace.

21 novembre 2002

Durante la sepoltura del padre al Cimitero dei Cappuccini a Palermo, il signor Franco, presente al funerale, si avvicina a Massimo e gli fa pervenire un messaggio di cordoglio da parte di Provenzano.

10 marzo 2004

Totò Riina in aula di tribunale fa espressamente il nome di Massimo Ciancimino. E ci prende di brutto: “Il figlio di Ciancimino non è stato mai citato, non è stato mai sentito. Perché non si deve sentire il figlio di Ciancimino che era in contatto con il colonnello dei Carabinieri e l’allievo di quelli che mi hanno arrestato? Perché questo Ciancimino che collaborava con ’sto colonnello non ci dice o non ci viene a dire il perché cinque sei giorni prima l’onorevole Mancino ci dice Riina in questi giorni viene arrestato? Ma a Mancino chi ce lo disse cinque giorni prima che io veniva arrestato? E allora ci sono questi signori che mi ha venduto! C’è chi mi ha venduto!”.
Massimo è spaventato. Riina ha fatto il suo nome e ha dimostrato di aver capito esattamente come sono andate le cose. Contatta immediatamente De Donno: “Cos'è questa storia? Mi avevi promesso che non usciva niente e ora Riina fa addirittura il mio nome?” De Donno lo tranquillizza ancora una volta: “Stai pure certo che non succede niente”. E infatti non succede niente. Nessuna procura si sognerà mai di chiamarlo a testimoniare. Nemmeno una domanda innocente sul patrimonio di Don Vito. Tutto sommerso per più di dieci anni.

24 novembre 2004

Nasce Vito Andrea, il primogenito di Massimo Ciancimino. Nonostante il divieto del padre, Massimo dà al figlio il suo nome.

7 dicembre 2004

Il signor Franco, dopo due anni che non vede più Massimo (l'ultima volta era stata in occasione dei funerali del padre), si attiva per fargli avere il passaporto per il figlio Vito Andrea appena nato. Una cosa mai vista: il passaporto singolo per un bambino di appena 13 giorni di vita. Con tanto di foto e valido per dieci anni.

17 febbraio 2005

Massimo Ciancimino è a Parigi per festeggiare il suo compleanno (che cade il 16 febbraio). La sua abitazione all'Addaura sul Lungomare Cristoforo Colombo numero civico 3621 viene sottoposta ad una perquisizione da parte dei Carabinieri. E' in quest'occasione che viene trovata la lettera a Dell'Utri che fa riferimento al triste evento per il figlio di Berlusconi. La casa viene passata al setaccio, ma la cassaforte in bellavista nella cameretta del figlio Vito Andrea con dentro il papello e tutti i documenti relativi alla trattativa non verrà toccata. Nei verbali di perquisizione addirittura non si fa alcun riferimento ad alcuna cassaforte. Eppure Massimo, da Parigi, aveva parlato con il capitano dei Carabinieri che conduceva la perquisizione e si era detto disponibile a fargli avere le chiavi della cassaforte. “La cassaforte non ci interessa”, aveva risposto il capitano.

Prima settimana di aprile 2006

Un emissario del signor Franco avvisa Massimo Ciancimino che di lì a poco ci sarebbero stati “sviluppi importanti”. Non è opportuno quindi che rimanga a Bologna. Massimo porta la famiglia a Sharm-el-Sheik e, per precauzione, si porta dietro l'avvocato penalista.

10 aprile 2006

Dopo un testa a testa estenuante con Silvio Berlusconi, Romano Prodi vince le elezioni politiche. Il risultato ufficiale si avrà solo a notte inoltrata.

11 aprile 2006

All'alba, Provenzano viene arrestato. Nella masseria vengono trovati un paio di pizzini che fanno esplicito riferimento a Massimo Ciancimino.

Ultima settimana di maggio 2006

Lo stesso emissario del signor Franco avvisa Massimo che anche per lui è in arrivo l'arresto e che sarebbe meglio che portasse in un posto sicuro tutta la documentazione contenuta nelle sue casseforti relativa alla trattativa. Massimo segue di nuovo il suo consiglio. Si reca a Parigi. Al ritorno, si ferma in Svizzera e deposita la documentazione con il papello in una cassetta di sicurezza.

7 Giugno 2006

Dopo un paio di giorni dal rientro in Italia, Massimo viene tratto agli arresti domiciliari su mandato del gip Gioacchino Scaduto. E' indagato per vari reati tra cui riciclaggio del denaro del padre. Dopo aver ricevuto tutte quelle rassicurazioni sul fatto che non avrebbe mai avuto alcun problema giudiziario e lamentando lo “strabismo investigativo” che si sarebbe abbattuto solo su di lui risparmiando i suoi fratelli, Massimo è deciso a raccontare tutta la verità ai magistrati: “Mi sono rotto i coglioni di coprire tutti!” Ritiene assurdo che lui, l'ultimo anello della catena, sia quello che subisce le conseguenze, mentre i “professionisti” non vengono assolutamente toccati. A quel punto incominciano su di lui delle pressioni fortissime da parte di vari soggetti perché se ne stia zitto e dica che il padre, per esempio, non era socio occulto delle società del Gas. Massimo ne è consapevole: è una tesi assolutamente imbarazzante da sostenere di fronte ai magistrati. Ha paura, non sa che fare.

29 luglio 2006

Il Parlamento italiano, con 460 voti a favore, 94 contrari (Idv, An, Lega Nord) e 18 astenuti (Comunisti italiani), approva con un'ampia maggioranza trasversale la legge 241/2006 che introduce un provvedimento di indulto per i reati commessi fino al 2 maggio dello stesso anno. In particolare viene concesso un indulto non superiore ai tre anni per le pene detentive e fino a 10.000 euro per le pene pecuniarie. Sono esclusi dall'indulto i reati di mafia e terrorismo. E' il primo provvedimento varato dall'appena nato governo-Prodi II.

Estate 2006

Mentre Massimo si trova agli arresti domiciliari, si presenta a casa sua un ufficiale dei Carabinieri in borghese, accompagnato da altri due sottufficiali in divisa, che rimangono ad aspettare fuori. Si presenta col nome incognito di “Signor Capitano”. Gli dice esplicitamente che, nel caso per altro impossibile in cui gli vengano fatte domande sulla trattativa, sul signor Franco o sui rapporti tra la mafia, Dell'Utri e Berlusconi, lui avrebbe dovuto tacere. In cambio avrebbe ricevuto agevolazioni processuali. Massimo è perplesso. Gli hanno sequestrato una sim-card con tutte le telefonate a tutte le varie utenze dei Carabinieri. Mostra al “Capitano” il verbale di sequestro in cui compare il foglio A4 destinato a Dell'Utri e Berlusconi. Dice: “E se mi mostrano questa roba, io come faccio a giustificarmi?” Massimo riceve assicurazioni precise. Avrebbe dovuto continuare sulla linea omertosa e nessuno si sarebbe mai sognato né di andare a indagare sulla sim-card, né di chiedergli conto della lettera di Provenzano a Berlusconi e Dell'Utri, né sarebbero venuti fuori argomenti relativi alla trattativa. Massimo avverte subito i suoi due legali dell'accaduto.

Giugno 2007

Massimo esce dagli arresti domiciliari. Permane però l'obbligo di non lasciare Palermo.

Settembre 2007

Cessa per Massimo l'obbligo di soggiorno a Palermo. Massimo vive delle pressioni fortissime in famiglia. La moglie lo spinge a “mandare tutti a 'fanculo” e di tirarsi fuori da questa situazione in qualunque modo. Il piccolo Vito Andrea è ancora traumatizzato per l'arresto del padre. Massimo è indeciso. Non ritiene opportuno presentarsi dai magistrati, che per altro non l'hanno mai chiamato. Decide dunque di cominciare a parlare alla stampa per far conoscere la sua situazione. Tenta di farsi chiamare a Porta a Porta, ma il tentativo non va a buon fine. Decide allora di sfruttare il buon rapporto che si era instaurato tra lui e l'allora direttore de Il Giornale Maurizio Belpietro, che lo riceve personalmente a Milano.

19 dicembre 2007

Massimo Ciancimino rilascia un'intervista esplosiva a Panorama in cui anticipa alcune delle dichiarazioni che poi avrebbe reso ai magistrati.

Fine gennaio 2008

L'incantesimo si interrompe. La procura di Caltanissetta manda a chiamare Massimo Ciancimino.

7 aprile 2008

Massimo Ciancimino inizia a collaborare con la procura di Palermo.

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