sabato 8 maggio 2010

IL DELFINO DI BRESCIA: L'Italia cinica delle trame e il generale dei Carabinieri


07/05/2010 Da: giovanepravda su /isintellettualistoria2.myblog.it 

IL DELFINO DI BRESCIA
di Sandro Provvisionato
Mentre si celebra nel silenzio totale il processo per la strage di Brescia, noi qui raccontiamo la vera storia del generale Francesco Delfino, la cui carriera ha attraversato tutti i buchi neri del Paese, dall’eversione alle stragi, dal terrorismo alla mafia, dai sequestri della ‘ndrangheta a quelli dell’Anonima sarda.

Se non fosse per l'eccezione (peraltro doverosa) di un giornale locale, oltreché dell'Ansa, di un processo in svolgimento da cento udienze non sapremmo nulla, ma proprio nulla. E' il processo che si celebra ben 36 anni dopo il fatto: la strage avvenuta in piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974, durante un comizio sindacale, che provoco' 8 morti e 94 feriti.
Per la verità si tratta del settimo processo, originato da una terza istruttoria. Occorrerebbe più spazio di questa rubrica per analizzare la rimozione generale che contraddistingue questa strage di marca neofascista, ma con evidenti e chiarissime implicazioni dei corpi dello Stato ed in particolare dei carabinieri.
L'importanza di questo processo che - lo dico con indignazione - quasi certamente, anche questa volta, non porterà ad alcuna condanna (il troppo tempo passato c'entra eccome) sta nell'emergere dalle tante testimonianze di uno spaccato d'Italia che continua a restare sconosciuta: l'Italia cinica delle trame in cui ad uno sgangherato gruppetto di militanti di estrema destra si affiancarono uomini di rilievo dei servizi segreti della Repubblica, una divisione interamente piduista dei carabinieri, la divisione Pastrengo, e perfino agenti venuti da oltreoceano.
Sul banco degli imputati siedono cinque persone: gli ordinovisti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, gia' condannati in primo grado e poi assolti per la strage di piazza Fontana di tre anni e mezzo prima; Pino Rauti (suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno), gia' segretario del Msi-dn; Massimo Tramonte, il “pentito” di Ordine nuovo poi pentito di essersi pentito, ed il generale a riposo Francesco Delfino, gia' implicato in mille storiacce di mafia e terrorismo e condannato poi per estorsione del suo amico Giuseppe Soffiantini, vittima di un sequestro, legato ai vertici piduisti che guidavano all'epoca la divisione dei carabinieri Pastrengo.
E' su quest'ultima figura di “uomo dello Stato” che vorrei fermare l'attenzione.
Chi e' Francesco Delfino? Quando all'inizio degli anni Ottanta cominciano i “regolamenti di conti” all'interno delle mura carcerarie tra le prime vittime c'e' il militante nero Ermanno Buzzi. Un altro nero, Pierluigi Concutelli, assassino del giudice Occorsio, il 13 aprile 1981, assieme a Mario Tuti si incarica di strangolare con i lacci delle scarpe proprio Buzzi, maggior imputato della strage di Brescia. Buzzi era stato tirato in ballo da un suo camerata, Angelino Papa, a sua volta “gestito” da un controverso ufficiale dei carabinieri, un militare assai spregiudicato: proprio il generale Francesco Delfino.
E' infatti il capitano Delfino che, il 6 marzo 1975, a quasi un anno dal massacro, raccoglie le prime parole di un neofascista bresciano, Angelino Papa, una specie di “pentito” ante litteram, che della strage accusa se stesso e il suo camerata Ermanno Buzzi. Condannati entrambi in primo grado, verranno assolti in appello sette anni dopo quando Buzzi e' gia' stato assassinato.
Il 18 aprile 1978, nel corso di un'udienza dibattimentale, Papa ritratta, accusa, autoaccusa e dichiara: «Il capitano Delfino mi chiamò in disparte e mi disse: “Noi sappiamo che Buzzi c'entra con la faccenda della strage; se tu ci dai delle notizie, se collabori, per te c'e' un regalo di 10 milioni. Per chi dà notizie c'e' questo regalo. Ti assicuriamo che ti terremo in disparte, non preoccuparti, tu esci”. Io dicevo che non sapevo niente di questo fatto. Il capitano Delfino mi disse che dovevo confermare quello che mi dicevano i magistrati se volevo salvarmi».
Interrogato in merito, il capitano Delfino ribatte: «Angelo Papa era tutto rosso in faccia e continuava a bestemmiare ed imprecare. Gli dissi: Cosa bestemmi a fare? Se anche ti promettessi di farti scappare, se anche ti promettessi 10 milioni, cose del tutto impossibili, tu non risolveresti il tuo problema”». Insomma, nessun tentativo di subornazione di teste. Per Delfino è il povero Papa che scambia il condizionale per il presente.
Facciamo ora un passo indietro di due anni. E’ il 22 marzo 1976. L'azione si sposta alla Stazione Centrale di Milano. Un gruppo di carabinieri in borghese si muove lungo il binario 8 dove è in arrivo il rapido Venezia-Milano-Torino delle 21.30. Aspettano che dal treno scenda un brigatista rosso, Giorgio Semeria, tra i fondatori delle Br, di cui probabilmente è diventato il nuovo capo dopo l'arresto di Renato Curcio.
Semeria scende dal convoglio e viene immobilizzato. Poi un brigadiere gli spara, uno strano colpo al fianco che dovrebbe trapassargli entrambi i polmoni e farlo morire soffocato dal suo stesso sangue. E' la stessa tecnica usata per uccidere la moglie di Renato Curcio, Mara Cagol. Il militare si giustificherà dicendo che il terrorista stava per estrarre una pistola dalla tasca. Peccato che l'arma, una mastodontica Smith e Wesson che non può stare in alcun tipo di tasca, Semeria l'avesse nella cintura ancora al suo arrivo in ospedale dove, grazie al tempestivo intervento dei medici, per puro miracolo, si salva.
I carabinieri sono così convinti che Semeria sia morto che quando si accorgono del contrario si precipitano in ospedale nel tentativo di portarselo via, ma si scontrano con l'intransigenza dei sanitari. Quei carabinieri finiscono sotto inchiesta per tentato omicidio. A comandarli era sempre lui: Francesco Delfino.
Piccoli incidenti di percorso che non impediscono all'ufficiale brillante carriera.
Nel 1981 lo ritroviamo in Libano, nelle file del Sismi, con il grado di colonnello, al fianco di un altro colonnello più famoso di lui, Stefano Giovannone, l'uomo fidato di Aldo Moro, esponente in prima linea della politica filoaraba di una parte almeno dei governi italiani dell'epoca. Ed è così che il nome di Delfino finisce negli atti dei magistrati della procura di Bologna che indagano sulla strage alla stazione del 2 agosto 1980 nel capitolo dedicato alla cosiddetta “pista libanese”, un altro clamoroso depistaggio del servizio segreto militare italiano.
Dopo il Libano, per Delfino arriva un lungo soggiorno negli uffici di New York del servizio, prima di tornare in Italia nel 1987, generale dei carabinieri, questa volta a interessarsi di mafia. Viene inviato a Palermo come vicecomandante della Legione. Vi rimane qualche anno per poi tornare al nord.
Ed è al nord qui che, guarda caso, a Delfino capita tra le mani Baldassarre Di Maggio, detto “Balduccio”, il grande accusatore di Andreotti, l'uomo che racconterà del bacio tra il più volte presidente del Consiglio e il capo di Cosa nostra, Salvatore Riina. Il 9 gennaio 1993 Balduccio confida a Delfino come fare per catturare il boss dei boss, Totò Riina. Il 15 gennaio Riina viene catturato ma in realtà, oggi sappiamo, su soffiata di Provenzano, tramite Vito Ciancimino. Poco dopo Delfino riceve un avviso di garanzia: diversi “collaboratori di giustizia” lo indicano come “referente” di Antonio Nirta, ‘ndranghetista, tra i boss più importanti dell'organizzazione criminale insediata nel milanese. Secondo il “pentito” Morabito, Nirta era addirittura in via Fani il giorno dell'agguato ad Aldo Moro e alla sua scorta.
Ma, stranamente, tutto finisce nel nulla: i riscontri alle dichiarazioni dei “pentiti” non si trovano. Come non si trovano riscontri ad un'altra accusa: l'unico brigatista ancora oggi latitante del commando che entro' in azione in via Fani, Alessio Casimirri, riparato in Nicaragua, avrebbe parlato del sequestro di Moro proprio a Delfino il 14 marzo, due giorni prima che il rapimento avvenisse realmente.
Ma la tegola piu' grossa casca sulla testa di Delfino qualche anno dopo. La procura di Brescia lo accusa di concussione ai danni dei famigliari di Giuseppe Soffiantini, un imprenditore sequestrato il 17 giugno 1997 e rilasciato dopo otto mesi.
Furono i Soffiantini a consegnare al generale Delfino 800 milioni delle vecchie lire per ottenere la liberazione del loro congiunto. L'Arma lo sospende dal suo incarico.
Il 10 aprile 1998, nella villa di Meina (Novara) del generale Francesco Delfino, vengono trovati 30 milioni e le due valigie che avevano contenuto l'intera somma. Quattro giorni più tardi il generale viene arrestato. Comincia per lui un lungo iter giudiziario che si concluderà il 23 gennaio 2001 quando la Cassazione rende definitiva la sua condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione per truffa aggravata.
Ha scritto Gianni Barbacetto: «La storia di Delfino e' la storia degli incubi della Repubblica. La sua carriera ha attraversato tutti i grumi oscuri del Paese, dall'eversione nera alle stragi, dal terrorismo rosso alla mafia siciliana, dai sequestri di persona della ‘ndrangheta calabrese fino a quelli dell'Anonima sarda».
Finora dal processo il ruolo di Delfino e' emerso pienamente come depistatore e subornatore di testi.
Nell'udienza del 1 ottobre 2009 a parlare del generale è stato l'avvocato Aldo Tedeschi, all'epoca dei fatti difensore di Ermanno Buzzi. Negli atti della prima istruttoria sulla strage - ha raccontato Tedeschi - c'era un documento in cui si riferiva di una riunione in cui si decise che si sarebbe dovuto “costruire un colpevole”.
A quella riunione, secondo il teste, parteciparono «ll pubblico ministero Francesco Trovato, l'onorevole missino Giorgio Pisanò e l'allora capitano dei carabinieri Francesco Delfino il quale avrebbe detto: “Io ho la persona giusta che puo' fare da capro espiatorio, bisogna solo lavorarla ai fianchi”».
Come Delfino cercò di “lavorare ai fianchi” Buzzi lo abbiamo visto. Ma c'è anche un altro testimone che accusa il generale. E' Ombretta Giacomazzi, oggi 53enne, che all'epoca della strage aiutava i genitori nella pizzeria Ariston, ritrovo di neofascisti. Nel 1975 Ombretta, che in seguito ha sposato un figlio di Soffiantini, venne arrestata con l'accusa di falsa testimonianza. Rimase in carcere per otto mesi e qualche giorno fa al processo ha raccontato delle «pressioni subite allora per coinvolgere persone che non hanno avuto alcun ruolo nelle vicende da me narrate. Avevo 17 anni e il capitano Delfino mi diceva “se parli esci, altrimenti l'accusa passa da falsa testimonianza a concorso in strage”». Cosi' la donna rilasciò delle dichiarazioni false.
Nella strage di Brescia chi ha voluto coprire il generale Francesco Delfino?

Omicidio Calvi, ancora senza movente né assassini


7 maggio 2010 www.rainews24.rai.it 
Per il pm Tescaroli lo hanno ucciso due volte. Così commenta la sentenza della Corte d'Assise d'appello di Roma di ieri nella quale, per insufficienza di prove, sono stati assolti come in primo grado Calò, Diotallevi e Carboni. Calvi fu trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra nel 1982.

Il Pm: Calvi ucciso due volte
"La sentenza di oggi, pur assolvendo gli imputati, conferma che Roberto Calvi è stato assassinato. La sentenza va rispettata in quanto espressione di democrazia ma
bisogna riflettere perch‚, nella prospettiva dei familiari del banchiere, questa pronuncia uccide due volte Calvi".

Cosa ha detto il pm Luca Tescaroli dopo la sentenza della corte d'assise d'appello che ha confermato l'assoluzione, per insufficenza di prove, di tutti gli imputati.
Il magistrato, che è stato applicato anche per il processo di seconda istanza, ha aggiunto: "Ricordiamo che i congiunti di Calvi hanno dovuto attendere 18 anni prima che venisse riconosciuto il reato di omicidio. Ora valuteremo se presentare
ricorso in Cassazione: leggeremo le motivazioni di una sentenza che comunque convalida il lavoro fatto".


Parla uno degli imputati
"E' stato un errore giudiziario. Sono piu' che mai convinto che Roberto Calvi si sia suicidato". Dopo la conferma, anche in secondo grado, dell'assoluzione per il delitto
dell'ex presidente del Banco Ambrosiano, parla a 'Radio 24' Flavio Carboni, uno dei tre imputati. "Dopo 28 anni, non ci si abitua a sentirsi vomitare addosso accuse orrende", commenta a Radio 24.

La prima corte d'assise d'appello di Roma ha confermato l'assoluzione per l'imprenditore di origine sarda Flavio Carboni, Pippo Calo' ed Ernesto Diotallevi, imputati di concorso in omicidio volontario premeditato in relazione alla morte di Roberto Calvi, l'ex presidente del vecchio Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri, a Londra, il 18 giugno del 1982.


Tutti assolti per insufficienza di prove
In aula, al momento della sentenza letta dal presidente Guido Catenacci dopo oltre tre ore di camera di consiglio, c'era soltanto Ernesto Diotallevi. Calo', detenuto
ad Ascoli Piceno, era collegato in videoconferenza. Assente, invece, Carboni che pure aveva seguito tutte le udienze del processo d'appello.

La sentenza e' stata emessa dopo due ore di camera di consiglio dal primo collegio presieduto da Guido Catenacci. La sentenza di oggi conferma, quindi, quella emessa in primo grado il 6 giugno 2007. Il rappresentante dell'accusa, Luca Tescaroli, aveva chiesto la condanna all'ergastolo dei tre imputati per l'omicidio dell'ex presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri. Dalla vicenda
erano gia' usciti di scena, con sentenza di assoluzione passata in giudicato, Silvano Vittor e Manuela Kleinzing. L'accusa per Carboni, uomo d'affari, Calo', ex cassiere della mafia, e Diotallevi, gia' coinvolto in indagini sulla banda della Magliana (solo quest'ultimo era in aula oggi) era quella di aver organizzato la morte di Calvi, in concorso tra loro e con altri non ancora identificati, avvalendosi delle
organizzazioni criminali di tipo mafioso "per punirlo di essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle organizzazioni criminali".

Falcone e 007, mossa dell’Antimafia


www.corriere.it - 08 maggio 2010 di Alfio Sciacca. 
Palermo - Anche il Copasir interviene. Il Pd: ora si cerchi la verità dopo anni di omissioni e depistaggi
Falcone e 007, mossa dell’Antimafia
I servizi dietro l’attentato all’Addaura?

PALERMO — Misteri vecchi e nuovi sul fallito attentato all’Addaura all’esame della Commissione Parlamentare antimafia e del Copasir, l’organo di controllo sui servizi segreti. Ad annunciarlo è stato il presidente dell’antimafia, Giuseppe Pisanu che allo stesso tempo ha concordato con il presidente del Copasir, D’Alema, di «valutare insieme gli aspetti della vicenda che possano riguardare i servizi segreti». Tutto nasce dall’anticipazione del libro del giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni sul ruolo di pezzi dello Stato dietro al fallito attentato contro il giudice Giovanni Falcone, del 21 giugno ’89. Una ricostruzione, in parte già fatta anche in altri libri, secondo la quale nei pressi della villa al mare del magistrato c’erano due differenti gruppi «uno a terra formato da mafiosi e uomini dei servizi segreti e l’altro in mare su un canotto con a bordo due sub». Questi ultimi, che poi avrebbero evitato l’attentato, potrebbero essere gli agenti Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, successivamente uccisi. Insomma sulla scena dell’attentato c’erano due pezzi separati dello Stato: l’uno che voleva la morte di Falcone e l’altro che di fatto lo ha protetto. Uno scenario che potrebbe portare a riscrivere la storia di quegli anni dando forza all’ipotesi dei mandanti esterni dietro la stagione del terrore culminata con le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Un quadro che potrebbe farsi più chiaro se verrà identificato quel misterioso agente dei servizi, noto come «signor Franco o Carlo », che fa capolino sulla scena dei tanti misteri siciliani. Il tutto potrebbe anche avere ricadute giudiziarie.


Per l’attentato all’Addaura sono stati condannati Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia ma anche Vincenzo ed Angelo Galatolo. E alla luce delle ultime rivelazioni il legale di quest’ultimo, Giuseppe Di Peri, ha annunciato che sta valutando se chiedere la revisione del processo. «Secondo la tesi accusatoria – spiega - il mio assistito è stato incastrato da una pinna da sub la cui misura corrispondeva al suo piede. Ma da quello che leggo i cattivi sono venuti da terra e non dal mare. I sub invece erano i buoni». Sul ruolo di entità esterne alla mafia interviene anche il procuratore antimafia Pietro Grasso: «Dietro le tante stragi spesso è sembrato esserci un movente non perfettamente coincidente con quello delle organizzazioni mafiose. Ma la mia – precisa - è una valutazione ipotetica e generale. E visto che ci sono indagini ancora in corso non posso dire nulla di più». Da più parti si chiede di far subito chiarezza, soprattutto sul ruolo dei servizi. «Sono rivelazioni che possono aiutare a rileggere non solo il sacrificio di un giudice ma tutta la storia del rapporto tra mafia e potere – dice Walter Veltroni -, Pisanu deve dedicare la seduta di martedì all’esame urgente di questa vicenda. La Commissione Antimafia non può chiudere gli occhi e credo sia giusto che si chieda al procuratore Grasso di partecipare alla seduta». «Dopo anni di depistaggi e omissioni – aggiunge il senatore, sempre del Pd, Giuseppe Lumia - non si può più tergiversare. La verità deve venire fuori in modo chiaro e limpido. La Commissione antimafia assuma in prima persona questa missione». Sollecitazioni analoghe arrivano anche dal capogruppo al Senato del Pd Finocchiaro e dall’eurodeputato dell’Idv De Magistris.

Alfio Sciacca
08 maggio 2010
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Il golpe di Via Fani svela le sue ombre


Di Gino Gullace Raugei su /www.oggi.it 
Si è sempre creduto che il nodo inestricabile dei mille misteri che hanno caratterizzato una delle vicende più oscure d’Italia fosse nei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro. Invece, la chiave del giallo è nei poco più di 55 secondi che si impiegano per percorrere 400 metri di alcune anonime strade di Roma: chi ha avuto interesse ad eliminare dalla scena il presidente della Democrazia cristiana che con la forza delle sue idee turbava pesantemente i delicati equilibri politico-militari dell’Alleanza atlantica e la logica del mondo diviso in due blocchi, proprio qui lascia la sua firma. E le Brigate rosse? Non furono che uno strumento, più o meno inconsapevole, di una inquietante trama molto più grande di loro? La nostra è stata un’inchiesta lunga, faticosa e difficile. Alla fine, siamo riusciti a ricomporre secondo un rigido ordine logico tutte le tessere del puzzle. Ecco che cosa abbiamo scoperto.

LA MATTINA DELL’AGGUATO

Giovedì, 16 marzo 1978, è una mattina di cielo plumbeo e aria frizzantina: la dolce primavera romana si fa attendere. La Fiat 130 blu ministeriale di Aldo Moro e l’Alfetta bianca di scorta spuntano invece puntuali, alle 9.01, da un largo curvone di Via Trionfale, nel quartiere di Monte Mario. Il presidente della Dc, che abita lì vicino, e i cinque uomini della sua scorta (il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, le guardie di Pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera e il brigadiere Francesco Zizzi) sono diretti alla Camera dei deputati dove quel giorno si vota per la nascita della controversa creatura politica di cui lo statista pugliese è il padre storico: il governo Andreotti IV, un monocolore Dc con l’appoggio esterno - per la prima volta nella storia della Repubblica - del Partito comunista. «Via Trionfale», come si legge sul quotidiano Il Tempo, in un articolo del 17 marzo 1978, «è il percorso più diretto verso il centro dell’Urbe». Eppure, Moro e la sua scorta rallentano all’improvviso e svoltano a sinistra, sulla stretta Via Mario Fani, correndo ignari all’appuntamento con la morte. «Infinite volte, mi sono chiesta come potevano essere le Brigate rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora, in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato da Via Fani», dichiarò la signora Eleonora Chiavarelli, vedova dello statista, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage della scorta, sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, nell’udienza del 1° agosto 1980. Un dubbio atroce che, tra indagini lacunose, reticenti, frammentarie o, addirittura, inesistenti, non ha avuto mai una risposta. Eppure in quel chilometro scarso che separa Via del Forte Trionfale 79 (dove al tempo abitava la famiglia Moro) e l’incrocio di Via Trionfale con Via Fani c’è qualcosa di non trascurabile importanza che proprio non torna. In quei mille passi, come direbbe un giallista, c’è probabilmente la traccia decisiva per identificare i complici di quel gravissimo delitto. E, attraverso di loro, identificare probabilmente il mandante. Tra le quattro o cinque alternative di itinerario possibile, qualcuno insospettabile indirizzò Aldo Moro sul percorso meno conveniente, ma fatale. Senza il concorso di questo qualcuno l’agguato delle Brigate rosse non avrebbe probabilmente mai avuto luogo.

BASTAVA PEDINARLO?

Dal punto di vista della verità ufficiale, cioè giudiziaria, le deposizioni fondamentali per ricostruire le dinamiche del clamoroso agguato brigatista furono rilasciate tra il 13 e il 26 settembre 1978 dai cinque agenti superstiti della scorta di Moro (che il giorno della strage erano di riposo o in licenza) interrogati uno per volta dai giudici istruttori Ferdinando Imposimato e Achille Gallucci. «Ogni mattina il presidente Moro si recava sempre alla messa delle ore 9 nella chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici», dicono, parola più, parola meno, l’appuntato dei carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di Pubblica sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo e gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana. «Il percorso seguito era sempre lo stesso, il più breve e il più veloce: via del Forte Trionfale, via Trionfale, via Fani, via Stresa, via della Camilluccia fino a piazza dei Giuochi delfici». L’agente Pampana, nella sua deposizione, aggiunge un particolare molto preciso: «L’onorevole Moro usciva, costantemente, salvo rare eccezioni, intorno alle ore 9. Era precisissimo nell’orario, nel senso che poteva anticipare o posticipare l’ora di uno o due minuti». Stando così le cose, tutto sembra sufficientemente chiaro: alle Brigate rosse - come racconteranno in seguito i vari Moretti, Morucci, Faranda e compagnia - è bastato pedinare neanche troppo a lungo Moro e la scorta per avere una precisa contezza delle loro abitudini e quindi per scegliere il punto più adatto dove posizionare la trappola mortale.

LA VERSIONE DI ELEONORA

Eppure, il 23 settembre 1978, la signora Eleonora Moro, interrogata dal giudice istruttore Achille Gallucci, smentisce clamorosamente le deposizioni dei primi tre agenti (Gentiluomo, Pallante e Riccioni, ascoltati il 16 settembre). «Non posso affermare», dice la signora Eleonora, «che mio marito sia stato un abitudinario. Per quanto attiene all’orario di uscita del mattino, non è esatto quanto affermato dai superstiti della scorta. Essi, come la Signoria vostra mi precisa, sostengono che l’onorevole Moro era solito uscire di casa verso le ore 9. Invece, particolarmente negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, egli non aveva mai un orario fisso di uscita poiché bastava una telefonata per fargli cambiare il programma della giornata. Era solito andare a messa tutti i giorni, anche nel pomeriggio, a seconda dei suoi impegni. Egli, fra l’altro, cambiava spesso le chiese, frequentando quella di Santa Chiara, a Piazza dei Giuochi delfici, ma anche quella di San Francesco, sulla Via Trionfale, oppure quella del Gesù, in viale Regina Margherita ed altre ancora. «Faccio altresì presente», aggiunge la vedova di Moro, «che mio marito non faceva di solito la stessa strada e ciò per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso veniva deciso al momento da mio marito e dal maresciallo Leonardi, il caposcorta. La sua auto percorreva alle volte Via Cortina d’Ampezzo, alle volte Via Fani, alle volte Via Trionfale». Malgrado gli altri due agenti superstiti della scorta, Pampana e Lamberti, vengano convocati dallo stesso Giudice Gallucci tre giorni dopo la signora Moro, non vi è traccia nei verbali dei loro interrogatori di alcun contraddittorio mirato a far luce su testimonianze tanto divergenti.

“PARTICOLARI” TRASCURATI

A 32 anni di distanza dal fatto ci rechiamo dall’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato con i verbali di quegli interrogatori che lui stesso contribuì a raccogliere. «Non c’è dubbio», dice Imposimato, scorrendo le carte, «che le deposizioni fotocopia degli agenti sembrano concordate. Qualcuno, evidentemente, gli avrà ordinato di dire quelle cose. Perché non ce ne siamo accorti subito? Perché in violazione del codice di procedura penale del tempo, gli atti del rapimento Moro non furono trasmessi all’ufficio del giudice istruttore entro 40 giorni dal fatto, ma ben 64 giorni dopo, esattamente il 19 maggio. A quella data Moro era già stato ucciso e l’obiettivo era assicurare alla giustizia i brigatisti colpevoli. Un particolare come quello degli orari e dei percorsi della scorta è sembrato minore».

PARLA LA FIGLIA

Sempre a proposito degli orari e degli itinerari seguiti da Moro e la sua scorta, ecco ciò che dichiarò sua figlia Agnese ai giudici della corte d’Assise di Roma che stavano processando i brigatisti assassini nell’udienza del 20 luglio 1982: «Vorrei sottolineare che mio padre non faceva sempre gli stessi percorsi, che Via Fani non era che una delle strade che potevano essere percorse la mattina come nel corso della giornata, anche perché è una strada stretta, disagevole, spesso trafficata. I percorsi si cambiavano spesso perché c’erano delle preoccupazioni da parte di mio padre, inerenti al suo ruolo politico, preoccupazione per sé e per i familiari». «Vorrei sapere dalla teste se sa chi decideva il cambio dei percorsi nel trasferimento del padre dall’abitazione nei vari posti dove doveva recarsi», chiede l’avvocato Enzo Ciardulli, dell’Avvocatura di Stato. «Io ho sentito abbastanza frequentemente non delle discussioni in senso polemico, ma delle conversazioni fra Ricci e Leonardi al momento di uscire di casa sul percorso da scegliere. A volte mi è capitato anche di sentir dire: mi hanno detto che lì c’è traffico, passiamo da un’altra parte. I percorsi credo che poi venissero stabiliti anche a seconda del ritardo in cui era mio padre per arrivare a destinazione, cioè anche alla messa della mattina: spesso non ci andava più perché magari era in ritardo, cosa che gli capitava in maniera frequentissima. Quindi, voglio dire che c’era anche questa variabile di quello che poi succedeva realmente la mattina, cioè quale era l’orario effettivo di uscita di casa di mio padre». «Poteva capitare», chiede il presidente della giuria, «che il percorso da fare la mattina veniva stabilito la sera precedente?». «Non credo proprio», dice Agnese. «Mi pare veramente impossibile anche perché mio padre era un tipo veramente ritardatario, quindi, magari, usciva con tre quarti d’ora di ritardo rispetto all’orario previsto e magari avevano deciso di andare prima in un posto eppoi non ci potevano più andare perché l’orario era passato. Sono sicura che i percorsi venivano stabiliti la mattina stessa». «Quindi il percorso di Via Fani la mattina del 16 marzo venne stabilito casualmente quella mattina stessa?», chiede l’avvocato Ciardulli. «Credo proprio di sì», risponde Agnese Moro. «Questa Via Fani era uno dei percorsi che si facevano?», domanda il presidente. «Sì, ma ce n’erano parecchi», precisa Agnese Moro. «Altre volte era passato da Via Fani suo padre?», dice il presidente. «Sì», spiega Agnese Moro, «però non è che il percorso di Via Fani corrispondeva all’andare, poniamo, sempre per fare un esempio concreto, alla Chiesa di Santa Chiara perché per andare in Piazza dei Giuochi delfici passava indifferentemente da lì oppure da via Cortina d’Ampezzo. Questo per rendere l’idea, non è che per andare in un posto abituale c’era sempre quella strada. Anche per andare in un posto abituale ci potevano essere vari percorsi».

CAMBI DI PERCORSO

«Nelle settimane precedenti l’agguato di Via Fani mio padre era preoccupato per il continuo cambio dei percorsi per raggiungere le varie destinazioni di Moro», ci dice oggi Giovanni Ricci, figlio dell’appuntato Domenico Ricci, autista della Fiat 130 dello statista pugliese. «“Devo guidare a velocità elevata perché il presidente è sempre in ritardo”, spiegava papà, “e siccome transitiamo a volte per strade che non conosco, finirò prima o poi per fare un incidente».

LA NOSTRA PROVA COL GPS

A titolo puramente indicativo abbiamo sottoposto gli itinerari del presidente Moro alla prova del Gps o navigatore satellitare, uno strumento di precisione che allora non esisteva e che oggi serve per determinare la strada più breve e veloce che conviene fare per andare in un certo posto. Parcheggiamo dunque la nostra auto davanti al numero 79 di Via del Forte Trionfale, dove abitava lo statista, e chiediamo al Gps di guidarci verso Piazza dei Giuochi delfici. Lo strumento dice di proseguire per Via Cortina d’Ampezzo, svoltare a destra su via Cassia e poi andare diritti fino alla piazza. In totale sono 4 chilometri che percorriamo in 5 minuti e 42 secondi. Torniamo a Via del Forte Trionfale, 79, e raggiungiamo Piazza dei Giuochi delfici passando stavolta per Via Trionfale, Via Mario Fani, Via Stresa, Via della Camilluccia. L’incrocio tra Via del Forte Trionfale e Via Trionfale non è oggi transitabile nella direzione che ci interessa poiché sono intervenuti dei notevoli lavori di modifica della planimetria viaria che allungano il percorso di circa un chilometro. Sottraendo questa distanza e il tempo che impieghiamo a percorrerla dal dato finale si ottiene che passando per quelle strade si arriva a Piazza dei Giuchi delfici dopo 5 chilometri e 500 metri e quasi 9 minuti a causa delle numerose svolte e incroci con stop. A titolo puramente indicativo, come dicevamo, possiamo affermare che il percorso per Piazza dei Giochi delfici passando per Via Fani, oggi, come allora, non è il più breve né il più veloce.

IL DOCUMENTO SCOMPARSO

Per tagliare la testa al toro, come si suol dire, servirebbe un documento inoppugnabile: il diario della sala operativa del Viminale, relativo al giorno 16 marzo 1978 e precedenti, dove venivano annotati tutti i contatti radio con le auto di scorta e quindi tutti gli orari e tutti i percorsi. A quanto dichiara il dottor Guido Zecca, dirigente dell’ispettorato generale (l’ufficio responsabile dei servizi di scorta) presso il Viminale alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, nella seduta del 7 novembre 1980, «tutti i movimenti venivano sempre controllati dalla nostra sala operativa che segnava su un brogliaccio tutti gli spostamenti. Gli agenti di scorta dicevano: siamo partiti, siamo arrivati in questo punto, siamo qui fermi». Peccato però che questo fondamentale documento sembra misteriosamente scomparso: «Lo abbiamo chiesto ripetutamente», ricorda il senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, «ma non ci è stato mai trasmesso».

IL FIORAIO AMBULANTE

Per saperne di più, non resta che tentare di rintracciare alcuni testimoni, peraltro mai prima d’oggi interrogati. Il primo è Antonio Spiriticchio, il famoso fioraio ambulante di via Fani a cui, nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1978, furono squarciate le gomme del furgone per impedirgli di trovarsi, al momento dell’agguato, proprio nel punto cruciale: in prossimità dello stop all’incrocio con Via Stresa. «Quella mattina dovevo recarmi al mercato generale per rifornirmi di fiori e piante», ricorda Spiriticchio, che oggi ha 82 anni, «perciò uscii di casa verso le 6.30. Quando vidi tutt’e quattro le gomme del mio Transit a terra pensai all’atto vandalico di qualche teppista. La mia prima preoccupazione fu quella di andare comunque al lavoro, rimettendo il furgone in condizioni di circolare: nel cassone, infatti, c’erano molti fiori invenduti il giorno precedente che si sarebbero rapidamente deteriorati aggiungendo danno al danno. Perciò mi detti da fare con un amico gommista che venne a sostituirmi nel più breve tempo possibile le quattro ruote. Ero quasi arrivato a Via Fani, quando la radio dette la notizia dell’agguato». Spiriticchio ricorda Aldo Moro in Via Fani come una presenza abbastanza familiare. «Qualche volta passava in auto col solo Leonardi», dice, «qualche volte scendeva addirittura a piedi con la moglie che si fermava a comprare dei fiori». Ricorda, chiediamo, se Moro e la scorta passavano ogni giorno da Via Fani, più o meno alla stessa ora, verso le 9 del mattino? «No, su questo non ci potrei proprio giurare», risponde Spiriticchio. «Passava spesso, ma non sempre. Dopo l’agguato delle Br mi hanno interrogato un mucchio di volte, ma una domanda del genere non me l’hanno mai fatta».

GLI ALTRI TESTIMONI

I signori Ferrando e Santina, che avevano una rivendita di frutta e verdura sul tratto iniziale di Via Fani, confermano i ricordi del signor Spiriticchio. «Il presidente Moro e la sua scorta passavano frequentemente, ma non possiamo mettere la mano sul fuoco che passassero sempre e alla stessa ora», spiegano. «Quando il presidente passava, io ero intento a sistemare la merce in vetrina», racconta Bruno Marocchini, titolare di una gioielleria. «Me lo ricordo ancora, sul sedile posteriore della Fiat 130, intento a sfogliare i giornali. Passava sempre da Via Fani? Diciamo che passava spesso, ma se non passava non è che mi mettevo a piangere!».

IL PARROCO ATTUALE

A questo punto ci rechiamo alla Chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici, dove incontriamo don Giuseppe, uno dei parroci attuali. «Sto qui da appena sei anni e non sono dunque un testimone diretto dei fatti che vi interessano», premette. «Però sono molto legato alla figura di Aldo Moro perché anche io sono pugliese, di Castellaneta». Don Giuseppe ricorda il bailamme che turbò i ritmi parrochiali quando, circa tre anni fa, la chiesa fu invasa dalla troupe cinematografica che girava la fiction di Canale 5 Aldo Moro, il presidente con Michele Placido nei panni dello statista. «I parrocchiani, specie i più anziani, erano un po’ infastiditi e ricordavano che Aldo Moro, in fondo, frequentava abbastanza saltuariamente la nostra chiesa. Comunque, per saperne di più, dovete cercare il parroco di allora, Gianni Todescato».

IL PARROCO DI ALLORA

Don Gianni, attuale rettore della chiesa di Sant’Agnese a Piazza Navona è un anziano parroco vicentino, molto disponibile e cortese. Infatti accetta volentieri di riceverci. «Sono stato parroco di Santa Chiara per quarantuno anni», dice, «e certo non posso dimenticarmi di Aldo Moro. Proprio il 15 marzo, il giorno prima di essere rapito, gli detti io il sacramento della comunione. Quella mattina, certo prima delle 9, orario di inizio della messa, venne il maresciallo Leonardi a chiedermi la cortesia di somministrare in privato l’eucarestia al presidente che, dovendo tenere di lì a breve un importante discorso, non aveva tempo di assistere alla funzione religiosa». Don Gianni ricorda l’assidua presenza di Aldo Moro anche se ammette: «In tutti gli anni che è venuto alla mia chiesa non abbiamo mai stabilito un rapporto particolare. Riservato sono io e riservatissimo era lui». Gli chiediamo se si ricorda come si disponeva la scorta del presidente fuori dalla chiesa. «Me lo ricordo benissimo: due agenti lo accompagnavano dentro e gli altri tre aspettavano con le auto fuori. Parcheggiavano proprio davanti all’ingresso. Alcune volte arrivavano da Via della Camilluccia; altre volte venivano invece da Via Cortina d’Ampezzo». Ne è sicuro, padre? «Assolutamente: alcune volte venivano da sopra, da Via della Camilluccia; altre volte venivano da sotto, dalla parte di Via Cassia su cui sbocca Via Cortina d’Ampezzo. «Io non sono stato mai interrogato dagli inquirenti», dice don Gianni. «Altrimenti gli avrei detto che per circa due anni, tutte le volte che Moro entrava in chiesa, appariva un giovane sconosciuto in fondo al sagrato. Dopo il rapimento del presidente, quel giovane non si fece più vedere. Secondo me, era un brigatista».

Gino Gullace Raugei

Peppino Impastato non è morto invano


Di Lirio Abbate 
Sono passati trentadue anni da quando il giornalista di Radio Aut, che da Cinisi denunciava gli intrecci tra mafia e politica, fu ucciso sulle rotaie della ferrovia Trapani-Palermo. Non sono trascorsi invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione contro Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso


I funerali di Peppino Impastato
Quella di Peppino Impastato è una storia di coraggio e di riscatto consumata in una terra difficile ma straordinaria. Un ragazzo che negli anni Settanta aveva deciso di dichiarare guerra alla mafia denunciandone gli intrecci illeciti con la politica e i traffici di droga. Lo faceva attraverso Radio Aut, un'antenna libera che Peppino e i suoi amici avevano acceso nel piccolo paese di Cinisi, alle porte di Palermo.

In poco tempo con la sua informazione era diventato una spina nel fianco del capomafia che viveva a cento passi da casa sua. E nell'isolamento di un paese interamente controllato dal potente boss Gaetano Badalamenti, Peppino costituiva per la sua sola esistenza un affronto per il capomafia, rappresentando ogni sua parola una sfida allo strapotere dei mafiosi. Era la libera informazione che non piaceva a Cosa nostra. Come oggi non piace a chi propone leggi bavaglio per i giornalisti. Per questo Impastato andava eliminato con la violenza, e dopo la sua morte calunniato per evitare che diventasse un martire, un simbolo dell?antimafia, creando la messinscena di un Peppino eversore, vittima dei preparativi di un fallito attentato terroristico sui binari della ferrovia.

Era un militante della sinistra extraparlamentare Peppino, e quando viene ucciso ha trent'anni. Lo assassinano in modo atroce, mettendogli nel petto - dopo averlo legato sulle rotaie della ferrovia - una carica di tritolo. Fece rumore, l'esplosione. Un gran fragore ruppe il silenzio la notte dell'8 maggio 1978. Eppure nessuno volle sentire quel botto: Cinisi, già famosa per aver dato i natali a Badalamenti, rimase impassibile, coi suoi uomini d'onore dislocati nei punti strategici del paese a guardare lo svolgimento delle indagini non senza ostentare un ghigno di soddisfazione.

Gli investigatori non vollero sentire neppure la società civile siciliana, e i giornali, come certa magistratura catalogarono immediatamente quel delitto di mafia, il primo della lunga mattanza, come un “incidente” capitato ad un ”terrorista” che stava per compiere un attentato e nello stesso giorno in cui le Brigate rosse restituivano agli italiani il corpo di Aldo Moro. Già, perché Peppino Impastato aveva almeno due “peccati d'origine”: il primo, non era uomo delle istituzioni ma un cittadino semplice; il secondo, era comunista e poco importava se la sua attività di militante, di giornalista che faceva contro informazione dai microfoni della piccola “Radio Aut” , era rivolta esclusivamente a denunciare gli interessi dei mafiosi, di don Tano e dei suoi accoliti politicanti travestiti da amministratori pubblici.

Sono trentadue anni, adesso. Non sono trascorsi invano. E nemmeno Peppino è morto invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione da Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso.

In occasione del 32esimo anniversario della morte di Impastato, a Cinisi domenica si svolge un corteo dalla sede di Radio Aut a Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, a partire dalle ore 17. Per maggiori iniziative sulla marcia e sulle altre iniziative: www.peppinoimpastato.com

Moby Prince: ricompare la nebbia.


Dalle prime indiscrezioni sulla richiesta di archiaviazione della ultima inchiesta sulla strage del Moby Prince sembra che addirittura si sia fatto un passo indietro rispetto a quanto affermato nella sentenza del processo di appello e si sia riposizionato l'orologio delle indagini a 10 anno or sono, alla sentenza di primo gado. Adirittura parrebbe che sia tornata di moda la teoria della nebbia come concausa del disastro. Un anno fa avevamo intervistato Carlo Palermo, avvocato di parte civile di alcune delle vittime. Riproponiamo, perchè crediamo siano ainteressanti, alcuni passaggi di quella intervista: 

A Carlo Palmo abbiamo chiesto: in che contesto si compie la tragedia del Moby Prince?

«Tutto avviene la notte del 10 aprile 1991, anche se di certo preparato prima: l’ultima notte prima della chiusura ufficiale della guerra del Golfo, la notte stabilita dal Comando militare degli Stati Uniti per attuare l’illecita cessione di armamenti militari statunitensi a soggetti non identificati presenti con le loro imbarcazioni nella rada del porto di Livorno. Le anomalie e i mancati controlli di quella sera», ci ha detto ancora Palermo, «sono tanto macroscopici da far ipotizzare che alcune "forze" italiane anziché essere solo omissive rispetto a quanto svolto dagli americani, ne fossero in qualche modo partecipi, con conseguente ritardo nei soccorsi. Forse perché non rimanesse traccia di niente: solo e semplicemente... nebbia».

Nebbia sulla quale l'Avvocato Palermo ha riscontrato nuove risultanze mai esaminate prima:

" Sono riuscito a recuperare ben 17 anni dopo il disastro il registro dell'Avvisatore marittimo, che nessuno aveva mai esaminato e tanto meno esposto in atti giudiziari né era mai stato acquisito dall'autorità giudiziaria".

Le annotazioni riportate in questo documento sono assai numerose:c’è quasi tutto gia scritto, anche quello che per anni è rimasto oscurato. La pagina del 10 aprile indica che ci sono ben sette navi militari americane presenti nella rada di Livorno: Cape Flattery, Gallant II, Cape Breton, Efdim Junior, Cape Syros, Cape Farewell e Margareth Likes. Non solo. Indica la loro presenza nei giorni precedenti, e dice che stanno imbarcando e sbarcando anche esplosivo.

Infine, c'è annotata pure la presenza di una nave militare francese, la Port de Lion, operativa la sera della tragedia, ma pure nei giorni successivi, quando si decide che a causa dell’incidente l’armamento non può più essere "movimentato" nel porto di Livorno e si sposta parte del teatro delle operazioni più a Sud, a Talamone: la Port de Lion è in grado di entrare nel canale che porta alla base e così sostituisce le chiatte per numerosi trasbordi.

"Il trasferimento delle operazioni a Talamone - racconta Carlo Palermo - è confermato anche dagli accertamenti della Questura di Livorno per conto del Pm romano Ionta: almeno tre delle navi militarizzate Usa si spostano verso il piccolo porto toscano nei giorni successivi alla tragedia del Moby Prince. La Cape Breton parte carica di materiale bellico, porta 6.056,5 tonnellate di razzi con proiettili esplosivi; la Efdim Junior va ad imbarcare munizioni ed esplosivi; infine, la Gallant 2 risulta ripartita da Livorno per Talamone col suo carico di munizioni che aveva all'arrivo".

Carlo Palermo non conferma e non smentisce ma sarebbe stato ipotizzato che queste navi si siano appoggiate a Talamone allo stesso agente marittimo già utilizzato, qualche anno prima, dalle navi coinvolte nei traffici dello scandalo Iran-contras: la fornitura di armamenti da parte dell’intelligence americana alle milizie parafasciste nicaraguensi, basate in Honduras, utilizzando fondi provenienti dalla vendita clandestina, a prezzi gonfiati, di armamenti di provenienza polacca all'Iran.

Moby Prince, una storia che rischia di finire senza un colpevole


La procura ha depositato la richiesta di archiviazione dell'inchiesta-bis sull'episodio che portò alla morte di 140 persone
Ansa - 07/05/2010 - 09:44
(Per chi vuole approfondire: http://grimaldimobyprince.blogspot.com/

Rischia di calare definitivamente il sipario sul Moby Prince e sui suoi 140 morti. La Procura di Livorno ha infatti depositato la richiesta di archiviazione dell'inchiesta-bis individuando, stando a quanto si apprende in ambienti giudiziari, nell'errore umano la principale causa dell'incidente. Quasi vent'anni dopo quella terribile notte del 10 aprile 1991, dunque, la vicenda giudiziaria del più grave disastro della marineria italiana sta per concludersi di nuovo. Più di 10 di anni fa, infatti, si era chiusa una prima volta e senza colpevoli. I diversi processi celebrati non avevano individuato responsabilità negli imputati: Valentino Rolla, ufficiale di guardia della petroliera Agip Abruzzo con la quale entrò in collisione il Moby Prince, gli ufficiali della capitaneria Lorenzo Checcacci e Angelo Cedro, e il marinaio di guardia nella sala operativa della capitaneria, Gianluigi Spartano.



Né la mancata attivazione dei sistemi di segnalazione antinebbia da parte di Rolla, né le cattiva gestione delle operazioni di soccorso dopo l'incidente, e il successivo rogo che avvolse il traghetto, per i tre militari, furono ritenute colpe dai tribunali. Per quasi vent'anni i familiari delle vittime, anche se divisi tra loro in due comitati distinti e con posizioni molto diverse su quanto accaduto quella notte, hanno continuato a chiedere verità e giustizia. E questa decisione della procura porterà con sé nuove polemiche. Per ora dell'esisto delle indagini si sa poco, a parte il fatto che i magistrati livornesi ritengono l'errore umano una delle cause principali, se non la principale, dell'incidente.



Nei prossimi giorni la procura spiegherà le sue ragioni anche pubblicamente, dopo averlo fatto per oltre cento pagine nella richiesta di archiviazione appena depositata negli uffici del giudice per le indagini preliminari che dovrà decidere se accoglierla o se invece ordinare supplementi investigativi. Quello che però è chiaro fin da subito è che i magistrati (Antonio Giaconi, Massimo Mannucci e Carla Bianco) coordinati da procuratore Francesco De Leo non hanno creduto o comunque non hanno trovato riscontri sulle ipotesi avanzate dall'avvocato Carlo Palermo, per conto dei figli del comandante del traghetto, Angelo e Luchino Chessa, e altri parenti delle vittime del Moby Prince, nell'istanza di riapertura delle indagini presentata nel 2006.



In quasi 600 pagine di memoria difensiva, il legale metteva in fila una serie di dubbi inquietanti e uno scenario tutt'altro che "accidentale": "Quella sera - scriveva Palermo - nel porto di Livorno sarebbero state scaricate armi da navi americane che non sarebbero però arrivate alla loro destinazione naturale, la base di Camp Darby (Pisa). Ci sarebbero state dunque operazioni militari illegali". Non solo, secondo Palermo ci furono anche "soppressione di atti e una sostanziale abdicazione della sovranità territoriale sul porto e sulla rada livornese" concludendo che l'incidente fu determinato da una serie di concause che però accesero "un faro sulle operazioni militari illegali che stavano avvenendo in porto". (ANSA).

Uranio: Effetti catastrofici in Nigeria.


Diffondiamo un'inchiesta che rivela come l'estrazione di uranio dalle miniere di Areva, il gigante dell'energia nucleare, sta mettendo in serio pericolo la popolazione del Niger. Areva è la società che possiede la tecnologia dell'EPR, le centrali che il governo vuole costruire in Italia. 

Left in the dust
L’eredità radioattiva di Areva nelle città del deserto del Niger
Maggio 2010
Areva è la multinazionale francese leader mondiale nel campo dell'energia nucleare ed è
l'unica presente in ogni attività industriale a essa connessa: miniere, chimica, arricchimento,
combustibili, ingegneria, propulsione nucleare e reattori, trattamento, riciclaggio,
stabilizzazione e stoccaggio delle scorie nucleari. Areva è anche la società detentrice del
brevetto del reattore EPR (reattori europei a acqua pressurizzata). Secondo i piani del governo
italiano, proprio quattro reattori EPR dovrebbero essere costruiti nel territorio italiano.
Areva, spinge per una nuova rivoluzione nucleare e, pur essendo già operativa in oltre 100
Paesi nel mondo, tenta di estendere le sue attività nel settore nucleare verso nuovi mercati. Si
sta impegnando moltissimo nelle sue pubbliche relazioni per convincere i governi, gli investitori
e l’opinione pubblica che il nucleare è oggi sicuro e pulito, cercando di presentarlo come una
tecnologia 'verde’. Gli effetti devastanti causati da questo allarmante malinteso si stanno già
facendo sentire. Produrre energia nucleare richiede un’attività mineraria per l’estrazione di
uranio che è distruttiva e mortale.
Fig.1 - Produzione di uranio e fabbisogno mondiale
L'estrazione dell'uranio può avere effetti catastrofici sulle comunità che abitano vicino
alle miniere e per l'ambiente per migliaia di anni. Questi effetti nocivi si stanno sentendo
fortemente in Niger, Africa.
Il Niger è un paese senza sbocco sul mare, posizionato nell’Africa sahariana occidentale,
con il più basso indice di sviluppo umano sul pianeta. Caratterizzato da un territorio desertico e
arido, scarsamente coltivabile e molto povero, e da gravi problemi sociali quali un’enorme
disoccupazione, bassi livelli di istruzione, diffuso analfabetismo, scarse infrastrutture e
instabilità politica.
Tuttavia, il Niger è ricco di risorse minerarie, come l’uranio. AREVA ha iniziato a
concentrare i suoi sforzi minerari nel nord del Niger 40 anni fa, proponendo questa sua attività
come un salvataggio economico di una nazione depressa.
Invece, l’attività di Areva è stata in massima parte distruttiva. Le detonazioni e le trivellazioni
in miniera causano enormi nuvole di polvere, montagne di rifiuti industriali e enormi
mucchi di fango rimangono esposti all'aria aperta; lo spostamento di milioni di tonnellate
di terra e roccia rischia di compromettere le sorgenti d’acqua sotterranee.
Una gestione negligente del processo di estrazione può causare il rilascio di sostanze
radioattive nell'aria, infiltrazioni nelle falde acquifere e contaminazione del terreno intorno alle
città minerarie di Arlit e Akokan. Ognuno di questi fattori causa danni permanenti
all’ecosistema ambientale ed è in grado di creare enormi problemi di salute per la popolazione
locale.
L'esposizione alla radioattività causa problemi delle vie respiratorie, malattie congenite,
leucemia e cancro, per citare solo alcuni degli impatti sulla salute. Purtroppo, i
problemi di salute abbondano in questa regione, e i tassi di mortalità legati a problemi
respiratori sono il doppio di quello del resto del Paese.
Eppure AREVA non si assume la responsabilità di eventuali impatti e gli ospedali locali,
controllati da questa stessa società, sono stati accusati di non aver diagnosticato molti casi di
cancro. Areva sostiene che nessun caso di cancro è attribuibile alle attività minerarie.
L'agenzia governativa che dovrebbe monitorare o controllare le azioni di AREVA è
sottodimensionata e con scarsi fondi. Per anni, le ONG e agenzie internazionali hanno
cercato di analizzare e valutare i livelli pericolosi di radiazioni in Niger. Ma non è mai stata
possibile una vasta e indipendente valutazione degli impatti minerari dell'uranio.
Nel novembre 2009, Greenpeace - in collaborazione con il laboratorio francese indipendente
nigerino CRIIRAD e la rete di ONG ROTAB - è stata in grado di realizzare un breve
monitoraggio scientifico del territorio, con la misurazione della radioattività di acqua, aria e
terra intorno alle cittadine minerarie di AREVA.
I risultati sono stati inquietanti:
• In 40 anni di attività, 270 miliardi di litri di acqua sono stati utilizzati nelle miniere,
contaminando l'acqua e impoverendo la falda acquifera. Saranno necessari milioni di anni per
riportare la situazione allo stato iniziale.
• In quattro campioni di acqua su cinque che Greenpeace ha raccolto nella regione di Arlit,
la concentrazione di uranio è risultata al di sopra del limite raccomandato dall'OMS
per l'acqua potabile. I dati storici indicano un graduale aumento della concentrazione di
uranio nel corso degli ultimi 20 anni, compatibile con l’influenza determinata dalla
sfruttamento delle miniere. Alcuni dei campioni di acqua hanno mostrato anche quantità
disciolte di radon radioattivo.
• Una misurazione del radon effettuato alla stazione delle forze di polizia a Akokan ha mostrato
una concentrazione di radon nell'aria tra le 3 e le 7 volte superiore ai livelli considerati
normali nella zona.
• Le frazioni di polveri sottili hanno mostrato un aumento della concentrazione di
radioattività due o tre volte superiore a quello della frazione grossolana. L’aumento
dei livelli di uranio in microparticelle comporta rischi molto maggiori di inalazione o ingestione.
• La concentrazione di uranio e di materiali radioattivi in un campione di suolo raccolto nei
pressi della miniera sotterranea di Akokan è risultato circa 100 volte superiore ai
livelli normali nella regione, e superiore ai limiti consentiti a livello internazionale.
• Per le strade di Akokan, i livelli di radioattività sono risultati essere fino a quasi 500
volte superiore al fondo naturale. Una persona che passa meno di un'ora al giorno in quel
luogo per un anno, potrebbe essere esposta a un livello di radiazioni superiore al limite
massimo consentito in un anno.
• Sebbene AREVA sostenga che nessun materiale contaminato provenga dalle miniere,
Greenpeace ha trovato diversi pezzi di scarti di metalli radioattivi al mercato locale di
Arlit, con indice di radioattività pari fino a 50 volte i livelli normali. Gli abitanti del
luogo usano questi materiali per costruire le loro case.
Dopo che Greenpeace ha pubblicato i primi (parziali) risultati della sua indagine, a fine
novembre 2009, AREVA avrebbe dovuto intervenire. Solo alcuni dei luoghi risultati radioattivi
secondo il monitoraggio di Greenpeace in uno solo dei villaggi minerari sono stati ripuliti.
Tuttavia, questa limitata bonifica non diminuisce la necessità di uno studio completo, in modo
da rendere sicure tutte le aree.
Greenpeace chiede uno studio indipendente intorno alle miniere e nelle città di Arlit e
Akokan, seguito da una completa bonifica e decontaminazione. Devono essere attivati i
controlli necessari per garantire che AREVA rispetti le normative internazionali di sicurezza
nelle sue operazioni, tenendo conto del benessere dei suoi lavoratori, dell’ambiente e delle
popolazioni circostanti.
AREVA deve iniziare a comportarsi come una società responsabile, così come pretende di
essere. Deve informare i propri lavoratori e la comunità locale sui rischi delle miniere di uranio:
molte persone in Niger non hanno mai sentito parlare di radioattività e non comprendono che
l'estrazione dell'uranio è un’attività pericolosa.
La popolazione di Arlit e Akokan continua a vivere respirando aria inquinata, da terreno e
acqua contaminata. Ogni giorno che passa, i nigerini sono esposti a radiazioni, a rischio di
malattie e povertà - mentre AREVA guadagna miliardi sfruttando le loro risorse naturali.
La popolazione del Niger merita di vivere in modo sicuro, pulito e in ambiente sano, e di
partecipare agli utili della sfruttamento della sua terra. AREVA, con il suo tentativo di
creare un rinascimento nucleare, minaccia di far perdere a queste comunità la
maggior parte delle risorse basilari, attraverso la contaminazione di aria, acqua e
terra.
L'energia nucleare rappresenta una scommessa sulla nostra vita, sulla salute e l’ambiente sin
dall'inizio della catena di produzione nucleare: l’attività di estrazione dell'uranio. L’energia
nucleare è pericolosa e sporca e non ha alcun ruolo nel futuro dell’energia, perché non è
un’energia sostenibile.
Greenpeace chiede una rivoluzione energetica basata sullo sviluppo sostenibile, conveniente e
sicuro delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica.
http://www.greenpeace.org/raw/content/italy/ufficiostampa/rapporti/niger-areva.pdf

Storace, prove generali di scandalo:false accuse per screditare due candidati alla presidenza tra cui Piero Marrazzo


06/05/2010 - 14:30 
www.terranews.it .Di Vincenzo Mulè.
LAZIOGATE. Francesco Storace fu «promotore o istigatore di una azione delittuosa»: l’incursione illecita nel sistema informatico del Comune di Roma avvenuta tra il 9 e il 10 marzo del 2005.

Francesco Storace fu «promotore o istigatore di una azione delittuosa»: l’incursione illecita nel sistema informatico del Comune di Roma avvenuta tra il 9 e il 10 marzo del 2005. Questa l’accusa mossa dalla Procura di Roma nei confronti dell’ex Governatore del Lazio, condannato ieri ad un 1 anno e 6 mesi, per la vicenda Laziogate. Con lui sono stati condannati altri sette protagonisti della vicenda. L’incursione, secondo quanto ricostruito dai magistrati capitolini, fu effettuata materialmente dal suo ex portavoce Nicolò Accame, dall’ex direttore di Laziomatica (ora Lait Spa), Mirko Maceri e da Nicola Santoro. Gli altri reati contestati, a vario titolo, erano quelli di concorso in accesso abusivo in un sistema informatico, di interferenza illecita nella vita privata e favoreggiamento personale.

L’interferenza illecita nella vita privata era attribuita ad Accame e ai detective privati Pasqua e Gaspare Gallo (che ha già patteggiato la pena a dieci mesi), questi ultimi due materialmente introdottisi il 28 febbraio del 2005 negli uffici romani di Azione Sociale, che aderiva al cartello di Alternativa Sociale, per girare dei filmati non autorizzati. Saranno loro a svelare tutti i retroscena del complotto politico. L’intento era quello di costruire della false accuse per screditare due candidati alla presidenza, Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini nel tentativo – poi fallito – di favorire la vittoria di Francesco Storace. Lo staff dell’ex giornalista viene filamto e pedinato nel tentativo di confezionare un falso scandalo delle auto blu.

Gli spioni reclutano pure un viados in quella che, col senno del poi, sembra una prova generale dello scandalo che nell’ottobre del 2009 travolgerà l’allora presidente della Regione Lazio. Nelle 305 pagine di ordinanza d’arresto, emerge anche il nome e cognome del travestito - un uomo «dedito abitualmente alla prostituzione» - che era stato già arruolato dalla banda per fabbricare il falso scandalo, poi rimasto inattuato non per scrupoli morali, ma perché sembrava troppo rischioso ricorrere a un personaggio di dubbia affidabilità.

Per quanto riguarda la Mussolini, le schede di presentazione della sua lista vengono riempite di firme false, con due incursioni notturne nei pc dell’anagrafe comunale e nella sede del partito. Tutto, per farla escludere dalle elezioni.

Inchiesta di greenreport sulla collaborazione energetica tra Albania e Italia (puntata 2 di 3)


[ 6 maggio 2010 ] 
Cooperazione internazionale e aiuti allo sviluppo (ma quello nostro) - seconda puntata
Aldo Agutoli

ROMA. Sin dal 2007, quando Tirana palesò l'intenzione di realizzare centrali termoelettriche (dette "Tec" in albanese), l'Italia si candidò alla loro progettazione. Nel dicembre 2007 Fulvio Conti, amministratore delegato dell'Enel, firma con il ministero dell'Economia albanese un memorandum of understanding per lo sviluppo del settore energetico. Nell'aprile 2008, il Consiglio dei Ministri albanese approvava il piano di "Sviluppo integrato della zona energetica ed industriale di Porto Romano", designando la periferia di Durazzo quale sede di una Tec. Decisa ad aggiudicarsi l'opera, l'Enel ha dovuto affrontare la iniziale concorrenza dell'azienda pubblica greca Power Corp SA e della tedesca Rwe, ma l'Albania ha, come al solito, preferito il supporto d'oltre Adriatico, e l'italiana si è aggiudicata il progetto (senza gara d'appalto internazionale, come si dovrebbe convenire in questi casi).

A dicembre dello stesso anno è stata la volta di Silvio Berlusconi, il cui atterraggio a Tirana è stato bollato dalla stampa albanese d'opposizione - ma anche dal Financial Times - come ‘battuta di caccia all'energia', con tanto di polemiche sulla concessione dei parchi energetici ai ‘colonialisti italiani' da parte del governo di centrodestra di Sali Berisha.

In quell'occasione, il Gruppo Falcione si è aggiudicato la realizzazione di un rigassificatore nella regione di Fier (Albania meridionale), il gruppo siciliano Moncada quella del più grande parco eolico d'Europa, da impiantarsi nei pressi di Valona, e l'Enel appunto ha ottenuto la Tec di Porto Romano.

Secondo quanto ci ricorda Francesca Niccolai del magazine settimanale on-line Ship2Shore «pochi giorni dopo la Regione Veneto annunciava che l'Enel avrebbe rinunciato alla centrale termica da 2 miliardi di euro prevista nel Polesine, trasferendo l'investimento in Albania. La Procura premeva affinché la società elettrica riducesse l'impatto ambientale dell'impianto e l'Enel ha optato per un paese dove le Procure sono meno ambientaliste».

Tuttavia la Procura di Tirana si accanisce contro Berisha e ne critica qualunque iniziativa - e così, durante le trattative energetiche italo-albanesi, è scoppiato lo "scandalo Damir Fazlić", businessman bosniaco proprietario dei terreni dove sorgerà il parco energetico di Porto Romano, arrestato (e immediatamente rilasciato) con l'accusa di averli acquistati sottoprezzo grazie ai vertici politici albanesi.

Si arriva così al 2009, il responsabile di ENEL-Albania, Michele Porri, firma un accordo con la Confindustria albanese che di fatto spiana definitivamente la strada alla centrale e consente di presentare pubblicamente ed ufficialmente la VIA alle autorità ed alla cittadinanza. Nell'aprile del 2009 rappresentanti della società civile e delle Ong criticano duramente lo studio che ha valutato gli impatti ambientali e soprattutto ne contestano la scarsa pubblicità.

All'inizio il processo di consultazione delle popolazioni locali era apparso molto ridotto, visto che erano stati interpellati solo gli abitanti di un villaggio. Poi, sempre grazie alle pressioni della Ong Ekolevizja, la consultazione è stata estesa a più centri. Nel frattempo nell'area interessata dal progetto sembra crescere la protesta, o quanto meno la poca disponibilità a dover sopportare un eventuale altro pastrocchio ambientale.

Un sondaggio reso pubblico lo scorso 15 ottobre ha rivelato che il 73% della popolazione locale è contrario alla realizzazione della centrale. Condotto dalla Ong locale Eden Center, il sondaggio si è basato su un campione di duemila persone. Porri ha dovuto sostenere ben tre incontri con le associazioni ambientaliste per cercare di contenere il dissenso. Gli incontri ce li spiega anche in questo caso la giornalista Francesca Niccolai, che ci va giù duro: «Porri ha dichiarato che la TEC non avrà un impatto negativo sull'ambiente, le emissioni di anidride solforosa e carbonica rientreranno nei parametri minimi e non inquineremo le acque di Porto Romano. Ha inoltre garantito che il carbone rilasciato dalla combustione verrà assimilato al 99% e le sue ceneri saranno utili alla produzione del cemento; una strizzata d'occhio al sindaco di Durazzo, Vangjel Dako, titolare di uno dei maggiori cementifici albanesi?».

Ma perché in una paese a cronica carenza energetica la popolazione si dimostrerebbe contraria a questa centrale? Domani la risposta.

(continua.2)

Inchiesta di greenreport sulla collaborazione energetica tra Albania e Italia (puntata 1 di 3)


[ 5 maggio 2010 ] 
Inchiesta di greenreport sulla collaborazione energetica tra Albania e Italia
Cooperazione internazionale e aiuti allo sviluppo (ma quello nostro)

Aldo Agutoli

ROMA. «La cooperazione energetica italo-albanese punta a far diventare l'Albania uno hub per gli approvvigionamenti e la sicurezza energetica del nostro paese, alternativo a quelli già in atto con altri paesi del Mediterraneo, la Russia e i fornitori del Golfo persico. Sono molte le iniziative in fase di progettazione o di esecuzione, fortemente caratterizzate dal carattere innovativo delle tecnologie e dal rispetto ambientale».

Con queste parole il ministro degli Esteri Franco Frattini commentava entusiasta pochi giorni fa sul portale www.servizi-italiani.net la collaborazione in atto sulle rive adriatiche (ricordiamo che l'Italia è il primo paese donatore in termini di aiuti allo sviluppo all'Albania, nonché primo partner commerciale).

Alle parole del nostro ministro fa eco il premier albanese Sali Berisha, che ha più volte e pubblicamente dichiarato che vuol far diventare il suo Paese la superpotenza energetica dei Balcani (e questo stride un po' con la realtà quotidiana visto che nella piccola repubblica delle aquile l'elettricità è una chimera per almeno un terzo della popolazione ed un altro terzo la riceve razionata!).

Comunque tra tutti i progetti energetici in cantiere quello che sembra correre su una corsia preferenziale è dell'Enel, riguardante una centrale termoelettrica a carbone di grandi dimensioni (1600 megawatt) a Porto Romano, vicino a Durazzo per un investimento di 2,2 miliardi di euro, con annesso cavo d' interconnessione commerciale ("merchant line") con l'Italia da 500 kV, per un costo di 240 milioni di euro, lunga 210 km, che dirotterà l'energia verso il Belpaese, e di una linea aerea da 400 kilovolt, lunga 25 km, che diffonderà l'agognata corrente in Albania.

E' dal 2007 che si parla di questi investimenti e già Greenreport (con un articolo di Lucia Venturi del 18/01/2008) fu facile profeta: si rischia di (far) confondere gli aiuti allo sviluppo con gli appetiti energetici italiani. Infatti con l'installazione del cavo sottomarino si esporta la produzione (e l'inquinamento) ma si importa l'elettricità. Un vero cavallo di Troia. Di tutto questo se ne sono accorti anche gli albanesi che proprio la settimana scorsa hanno divulgato alla stampa nazionale ed internazionale un vero e proprio libro bianco su questo progetto, smascherando l'Enel ed indirettamente la politica energetica italiana (per scaricare il testo integrale: http://bankwatch.org/documents/PortoRomanoOverTheEdge.pdf ).

Ma per comprendere bene la vicenda è necessario partire dall'inizio di questa storia, che è veramente interessante e lunga e che quindi pubblicheremo in tre puntate.

Laziogate: condannato Storace e altri 7.


5/05/10 • www.gliitaliani.it 
Si va dall'accesso abusivo al sistema informatico del comune, alla interferenza illecita nella vita privata altrui e al favoreggiamento.
Con 8 condanne, tra le quali qualle di Francesco Storace a un anno e 6 mesi e un’assoluzione, si e’ concluso oggi il processo Laziogate. La sentenza e’ stata pronunciata dalla IV Sezione penale del Tribunale di Roma. Il giudice Maria Bonaventura oltre a Storace ha condannato, disponendo per tutti la sospensione condizionale della pena inflitta e riconoscendo le attenuanti generiche a due anni Nicolo’ Accame, a un anno Nicola Santoro e Paolo Pasqua, Mirko Maceri, Romolo Reboa. A otto mesi ciascuno Vincenzo Piso e Tiziana Perreca. E’ stato invece assolto Daniele Caliciotti.
I reati contestati andavano a seconda della posizione processuale dall’accesso abusivo al sistema informatico del comune, alla interferenza illecita nella vita privata altrui e al favoreggiamento.
Il giudice ha condannato al risarcimento danni nei riguardi della societa’ Lait che gestiva il sistema informatico e ad Alessandra Mussolini quale rappresentante della lista ‘Alternativa sociale’ di Maceri, Reboa, Storace, Accame, Santoro in solido. Il risarcimento disposto dal giudice avverra’ in separata sede. Per gli imputati, condannti anche al pagamento delle spese processuali, il giudice Bonaventura non ha fissato alcuna provvisionale.
In una lunga dichiarazione, scritta a mano, dopo la sentenza che l’ha visto condannare a 2 anni per il caso Laziogate. Nicolò Accame, l’ex portavoce di Francesco Storace, afferma: “La sentenza di condanna l’ho ricevuta 5 anni fa quando le forze dell’ordine frugarono nel cuore della notte in casa di mio padre di quasi 80 anni e nella mia dove vivevo con i miei figli di 4 ed un anno senza peraltro trovare nulla. Cinque anni fa quando fui sospeso dal mio lavoro di direttore generale del ministero della salute in quanto ’soggetto pericoloso’ salvo poi essere assolto, sbattuto fuori definitivamente con un decreto. Cinque anni fa quando fui sospeso dall’ordine dei giornalisti al quale ero iscritto da oltre 10 anni. Tutto questo per aver denunciato una truffa a danno della democrazia, truffa per la quale è stata patteggiata la pena.
Tutto questo con un castello accusatorio basato sulle accuse di un disoccupato psicolabile. Acqua passata. Guardo avanti. Oggi cinque maggio 2010 come direbbe mio padre ‘me ne frego!’”

COME? CI SIAMO COMPRATI LA NIGERIA....? Gli azionisti chiedono chiarimenti


Nigrizia - 05/05/2010 Eni profitti a rischio
Un accatonamento di 250 milioni di euro. È quanto potrebbero costare le inchieste aperte contro il consorzio Tskj (di cui Eni è parte) accusato di aver pagato tangenti a funzionari nigeriani in cambio di appalti per 6 miliardi di dollari. Il colosso italiano ritocca i profitti, mentre gli azionisti chiedono spiegazioni.


Circa 250 milioni di euro. È il prezzo che la società italiana Eni si appresta a pagare per uscire dall'inchiesta sulla vicenda del consorzio Tskj, composto paritariamente, al 25%, dalla francese Technip, da Snamprogetti Olanda, filiale del gruppo Eni, dall'americana Kbr-Halliburton, e dal gruppo giapponese Jgc Corporation. Il nome Tskj riprende, infatti, le iniziali dei quattro soci.

Il gruppo si trova al centro di indagini da parte delle autorità americane, ma anche della procura di Milano, per il presunto pagamento di tangenti a pubblici ufficiali nigeriani in cambio di appalti per l'estrazione del greggio.

Sulla scia dell'inchiesta statunitense, nel 2004, la Procura di Milano ha avviato un'indagine su presunte tangenti per 180 milioni di dollari, versate tra il 1994 e il 2004 a politici e militari nigeriani dal consorzio Tskj in cambio di appalti per 6 miliardi di dollari, destinati alla realizzazione di impianti di trasporto e stoccaggio del gas liquefatto a Bonny Island.

Lunedì scorso il Cane a Sei zampe ha comunicato una revisione dell'utile 2009. Una revisione legata all'accantonamento di 250 milioni di euro destinati al fondo per il contenzioso legale.

Un accantonamento che ha allarmato gli azionisti della Fondazione Culturale di Responsabilità di Banca Etica che lo scorso 29 aprile si è astenuta, per protesta, dalla votazione del bilancio.

La Nigeria è, assieme all'Angola, il primo produttore di greggio del continente, il nono a livello mondiale. Un paese in cui Eni ha enormi interessi, anche nel settore del gas.

«Come azionisti di Eni non possiamo che essere preoccupati, anche perché ci sono altre indagini in corso e la società non ha pubblicato alcuna stima su possibili sanzioni future» ha dichiarato Ugo Biggeri, presidente della Fondazione Culturale di Banca Etica, riferendosi ad eventuali sanzioni legate alle violazioni ambientali da parte del colosso italiano.

Biggeri ha infine chiesto ad Eni di «mettere tempestivamente a disposizione degli azionisti un rapporto che spieghi nel dettaglio gli impatti potenziali sul bilancio delle sanzioni per il possibile coinvolgimento in casi di corruzione e di violazione di norme ambientali», precisando: «La corruzione non è solo un problema etico, ma anche economico».


(L'intervista ad Andrea Baranes, della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale è stata estratta dal programma radiofonico Focus, di Michela Trevisan)


''L'immunita' di Ciancimino'' al processo Mori. Tra testimonianze e minacce.


di Aaron Pettinari - Antimafia 2000 - 4 maggio 2010 
Palermo. Si è svolta questa mattina l'udienza del processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, entrambi accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel '95.


Questa volta a salire sul banco dei testimoni è stato l'ex legale dell'azienda del Gas in cui Vito Ciancimino deteneva le sue quote occulte, l'avv. Giovanna Livreri.
Interrogata sui suoi rapporti con il tributarista Gianni Lapis, condannato di recente insieme a Massimo Ciancimino nel processo d'appello per il cosiddetto 'tesoro' di Vito Ciancimino, la Livreri ha raccontato di aver saputo, proprio dal professore, che il quarto figlio del politico democristiano “godeva di una sorta di immunità”. In particolare, secondo il legale palermitano, “era garantito perchè aveva collaborato con lo Stato, con il padre Vito Ciancimino, nella cosidetta trattativa per fermare le stragi del '92”. Una condizione per la quale Massimo Ciancimino “aveva un corsia preferenziale”. Quindi ha aggiunto: “il professor Lapis - il quale aveva parlato alla Livreri della protezione a Ciancimino jr già nel 2005, in occasione della perquisizione dello studio e della sua abitazione - mi disse che mentre per Massimo Ciancinimo la polizia giudiziaria aveva usato metodi molto più soft, cioè edulcorati, per lui non fu così”. Infatti, “mentre da Ciancimino non vollero neppure la chiave della cassaforte di casa, da Lapis volevano fare saltare la cassaforte con la dinamite”.
L'avvocato Livreri ha poi sottolineato che “Massimo Ciancimino deteneva in casa i documenti del padre relativi alla trattativa e quindi alla cattura di Totò Riina. Era una sorta di 'salvacondottò per il futuro” ha continuato, “Lapis mi disse che Ciancimino era trattato così perchè aveva ottimi rapporti con le istituzioni, in quanto attraverso suo padre era stato arrestato Totò Riina”. “Insomma, Ciancimino era stato trattato meglio perchè garantito e di questo si lamentava Lapis, il quale mi parlò anche della trattativa. Mi disse che Massimo Ciancimino era stato contattato dal Ros per riuscire, attraverso il padre, a fare arrestare Riina”. In merito a ciò ha concluso dicendo che "Lapis mi parlò di Mori e De Donno solo riferendosi alla trattativa”.
Durante la deposizione l'avvocato ha parlato anche della società del metano appartenuta in passato a Vito Ciancimino e che aveva tra i soci Maria D'Anna, e il marito Ezio Brancato. “Il professor Lapis mi parlò di copertura politico-giudiziarie sulla società 'Gas'. In particolare mi fece il nome di un magistrato che stava a Roma e che si occupava della Gas perchè aveva degli interessi, si trattatva di Giusto Sciacchitano (pm della Direzione nazionale antimafia ndr), mentre tra i politici mi fece il nome dell'ex ministro Carlo Vizzini che gli era stato molto vicino”. La Livreri, pur ribadendo in aula di non avere mai conosciuto il figlio dell'ex sindaco di Palermo, nel 2009 parlava con Lapis di Ciancimino via telefono. Se “Qualcuno lo farà fuori” aveva detto “non sarà certo la mafia ma lo Stato”, un fatto, ha aggiunto, che “lo penso anche oggi...”.
Oltre alla deposizione dell'avvocato a processo è stato ascoltato anche il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo. Questi, che ha ricoperto incarichi sotto la guida del Generale Mario Mori sia nel Ros che nel Sisde, ha riferito di presunti screzi tra questi e l'ufficiale Sergio De Caprio, alias “Ultimo”. “Nel '96 - ha raccontato - il Capitano De Caprio mi espresse il suo disappunto sulla decisione del generale Mori di non dargli 30 uomini da impiegare nella ricerca dell'allora latitante Bernardo Provenzano. A seguito di quell'episodio i rapporti tra i due rimasero molto tesi almeno fino al 2007”.
Innanzi ai giudici Giraudo ha anche ricordato di aver subito pressioni, nel 1994, da parte dello stesso Mario Mori, a sua volta condizionato da altri soggetti, affinchè non arrestasse un noto terrorista algerino. Al termine della deposizione il generale Mori è intervenuto per difendersi attraverso le dichiarazioni spontanee in cui ha eslcluso i dissidi con l'ufficiale De Caprio, quindi ha dato la propria versione in merito al mancato arresto dell'algerino. Il processo quindi è stato rinviato al 24 maggio per la prosecuzione del'esame dei testi del pubblico ministero.
Nel primo pomeriggio, con una nota alle agenzie Massimo Ciancimino è voluto intervenire sulle dichiarazioni della Livreri: “Non credo di avere mai ricevuto trattamenti di favore anzi... È forse anche palese un minimo di trattamento di non favore paragonato ad altri imputati. Sicuramente ogni tipo di disattenzione ha voluto solo giovare personaggi che ancora oggi godono di simili protezioni. Credo che gli ultimi accadimenti ne siano anche la conferma. La mia posizione scomoda di teste imbarazza molti, anche nel momento di manifestare un minimo di solidarietà. La mia è triste dirlo, ma è una corsa persa in partenza. La via della legalità è la più difficile da percorrere”. Il riferimento è al processo a suo carico, contrariamente alle aspettative, avvenuto con una condanna per riciclaggio in primo e secondo grado e alla notizia sulla lettera minatoria indirizzata a 'La Repubblica' di Palermo e al 'Giornale di Sicilia'. La notizia è stata divulgata dalle agenzie nella tarda serata di ieri. La busta, inviata da Firenze, conteneva un proiettile e un messaggio intimidatorio contro alcuni dei protagonisti di quello che il mittente anonimo definisce «un disegno eversivo intrapreso da magistrati comunisti».
Nello scritto si fa riferimento al procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, al Pm della Direzione distrettuale antimafia Nino Di Matteo, al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, a Massimo Ciancimino e al pentito Gaspare Spatuzza, a vario titolo interessati nlle recenti inchieste sulle stragi del '92 - '93 che “direttamente o indirettamente subiranno le conseguenze di operazioni già pianificate”.
Vengono citati anche i giornalisti Rai Michele Santoro e Sandro Ruotolo “in attesa di decisioni” descritti come “giornalisti in appoggio ad un disegno eversivo intrapreso da magistrati comunisti”. Tutti questi personaggi, secondo l'anonimo, sarebbero autori di “un vero attacco a degni e valorosi uomini che hanno dignità al nostro paese”, con probabile riferimento a Berlusconi e Dell´Utri, oggetto di alcune dichiarazioni sia di Ciancimino che di Spatuzza. Quindi una conclusione con tono minaccioso: “Sono state disposte operazioni a sostegno della nostra democrazia. Tumori generati da un eccesso di ruoli all´interno del nostro sistema di poteri. Nessun altro ostacolo può essere posto a danno di quest´unico principio di democrazia”. Sempre nella serata di ieri una lettara di minacce è stata recapitata all'avvocato Francesca Russo, legale di Massimo Ciancimino, con l'invito a non “accreditare più” il figlio di don Vito, che in questi mesi viene sentito da numerose Procure italiane proprio in merito alla trattativa.

“La mafia è una merda!”


Articolo pubblicato venerdì 23 aprile 2010 in Germania da TAZ 
Fonte: Italia dall'estero.
Sicilia. Il giornalista locale Pino Maniaci riporta notizie su Cosa Nostra. A questo scopo ha fondato una propria emittente televisiva locale.

Quando Pino Maniaci va a prendere un caffè, ne ordina sempre tre. Uno per sé e uno per i due carabinieri al suo fianco. Con la sua corporatura dinoccolata nel vestito scuro troppo largo, la cravatta a pois rossi e i baffi lo si potrebbe scambiare anche per un comico. Ma Pino, 57 anni, è un giornalista. Si occupa di televisione locale in Sicilia ed è sotto protezione della polizia 24 ore su 24.

Più tardi nel pomeriggio, andrà in onda nello stesso abito scuro: notizie in tempo reale, per due ore. Proprio come ogni giorno, sette giorni alla settimana. L’emittente Telejato è un’azienda a conduzione familiare, in cui collaborano la moglie e due dei suoi figli ed è finanziata attraverso donazioni e da tre minuti di pubblicità ogni ora. Ma cosa ci può essere da riportare a Partinico, questa pittoresca cittadina non lontana da Palermo, da dover necessitare del “più lungo notiziario del mondo”, come lui stesso lo definisce? L’apertura di un nuovo panificio e il compleanno del sindaco, Pino li menziona solo marginalmente. Lui persegue un altro obiettivo: la lotta alla mafia. “Estorsioni, licenze edilizie discutibili e scandali aziendali – Cosa Nostra, la mafia siciliana, è ovunque “, dice Pino, soprattutto qui, nel” Triangolo delle Bermuda della mafia “: Corleone, Partinico, Cinisi.

Si sente squillare. Pino fruga nella tasca della giacca ed estrae cinque telefonini. Oggi confonde le suonerie. “Così posso dare ai miei informatori numeri diversi, è più sicuro per me”, dice sottovoce. Il chiamante dice di aver visto gli agenti di polizia con i cani antidroga in città. Improvvisamente Pino passa al dialetto siciliano, la sua profonda voce da fumatore farfuglia con così tanta energia che bisogna stargli vicinissimo per riuscire a capire qualcosa. Quindi un blitz antidroga. A chi di preciso, non lo sa ancora. Richiama accanto a sé la figlia Letizia, i due partono con due auto diverse. Sui sedili posteriori le macchine fotografiche sono già pronte.

La missione: Addio Cosa Nostra

Se succede qualcosa, spesso la gente del posto prima che la polizia chiama Pino, che ottiene informazioni di prima mano, filma e monta i suoi contributi. Nei 25 comuni attorno a Palermo la sua trasmissione è seguita da 180.000 spettatori. Hanno imparato a fidarsi di lui e a elaborare le loro considerazioni. Una rarità in una regione dove il silenzio sembra far parte del dialetto. “In passato nessuno avrebbe mai visto o sentito qualcosa” [in italiano nel testo, N.d.T.] racconta Pino, ad esempio se una macchina è stata bruciata perché il proprietario non ha voluto pagare il pizzo il denaro per protezione alla mafia. A Partinico ora in media paga il pizzo solo il 10 per cento di tutti gli imprenditori. In Sicilia in media il 70 per cento.

Pino e Letizia hanno attraversato la città due volte. Dei cani antidroga nessuna traccia. La ragazza venticinquenne è in contatto continuo con il padre tramite il cellulare. “Via Colombo “, dice la chiamata successiva. Letizia si precipita per i vicoli verso il luogo dell’incontro, parcheggia l’auto a distanza di sicurezza dalle macchine della polizia. I funzionari aprono il portello posteriore, due cani pastore vengono liberati dalle loro gabbie e scandagliano con loro una casa tinteggiata di bianco. I cani annusano. Letizia riprende la scena con la sua telecamera. Pino, che è spuntato dal nulla, osa avvicinarsi un po’ di più.

Tra poco meno di due ore, durante la sua trasmissione, commenterà le immagini. Farà i nomi e spiegherà che il traffico di droga oltre alle estorsioni è una delle principali risorse della mafia. Pino, ex imprenditore fallito, non si definisce un giornalista professionista. “Il mio lavoro per me è una missione, non un attività commerciale”, ha detto in macchina sulla strada verso l’emittente. La missione si chiama: Addio Cosa Nostra.

Ma sono ancora pochi in Italia, anche tra i giornalisti, ad avere il coraggio di attaccare pubblicamente la mafia. Quelli che lo fanno vengono esaltati, come eroi da vivi, come martiri da morti. Pino non riesce più a contare i premi ricevuti per il giornalismo indipendente. Solo questo mese ha ricevuto due riconoscimenti.

Ma per la lotta antimafia occorre ben più di un paio di temerari. “Lo Stato fa troppo poca pressione perché è esso stesso, in parte, invischiato con Cosa Nostra”. In Italia emergono continuamente coinvolgimenti tra politica e mafia. In cambio di voti i politici assicurano ai mafiosi l’assistenza legale in tribunale: una situazione vantaggiosa per tutti. Proprio in questi giorni Raffaele Lombardo, nientemeno che il Presidente della Regione Sicilia, viene interrogato per presunti legami con un boss mafioso.

Un’auto incendiata e lettere minatorie

“Tuttavia, anche le fiammelle possono accendere un fuoco”, dice Pino. Non vuole abituarsi e non si abituerà mai a questo governo corrotto, seguita a raccontare mentre si avverte la rabbia crescere in lui. Pino estrae la sua sigaretta e gira la rotellina dell’accendino. “I mafiosi sono pezzi di merda!” [in italiano nel testo N.d.T.] Parole tanto chiare non restano senza conseguenze. Una macchina dell’emittente televisiva è già stata incendiata, il rampollo di un boss della mafia ha cercato di strangolare Pino, lettere minatorie arrivano ogni giorno. Finora si sono limitati all’intimidazione. “Certo che ho paura, soprattutto per la mia famiglia”, dice Pino. “Questa è anche una cosa buona, perché la paura rende più cauti.” Ciononostante cerca di rinunciare alla protezione della polizia il più spesso possibile. Una contraddizione? “Chi si presenta dappertutto con i carabinieri al suo fianco, si rende più vulnerabile”, dice. E perde informatori. Nessuno gli confiderebbe più notizie interessanti se la polizia fosse vicina e ascoltasse.

Il fatto che Pino sia vivo non ha a che vedere con la protezione dei Carabinieri. Anche il servizio di cronaca su Telejato finora ha fatto da garanzia perché non si andasse oltre le minacce. Perché l’attenzione dei media lo ha consentito, come ha potuto. Tanto più da quando la mafia ha imparato che ogni giudice o giornalista morto nella lotta antimafia la riaccende. La mafia vuole una solo cosa: condurre i suoi affari in tranquillità. Una tranquillità che Pino disturba ogni giorno. “So su quale linea sottile mi muovo qui”, dice mentre guarda rapidamente dalla parte opposta. Resterà l’unico momento in cui si avverte la sua ansia.

Nello studio televisivo, un appartamento di tre stanze riadattato, Letizia sta montando gli ultimi servizi. Ora bisogna fare in fretta, l’atmosfera è tesa. Poi alle 14:20 si da inizio alle trasmissioni, passa il jingle di Telejato Notizie. “Silenzio!” Pino Maniaci si schiarisce la voce, china lievemente il capo in avanti e, attraverso le lenti degli occhiali, guarda dritto la telecamera davanti a sé.

[Articolo originale ""Die Mafia ist ein Stück Scheisse!"" di Emilia Smechowski]

I piccoli doni di Silvio: Berlusconi ha approfittato della catastrofe per calarsi nel ruolo del salvatore.


Articolo pubblicato lunedì 5 aprile 2010 in Germania da Die Zeit. 
Fonte: Italia dall'estero.
Un anno fa un terremoto ha distrutto la città italiana dell’Aquila. Berlusconi ha approfittato della catastrofe per calarsi nel ruolo del salvatore. Questo ha aiutato le vittime?

Tra l’appartamento nuovo e quello vecchio di Marco di Gregorio ci passano dieci chilometri, un anno e un terremoto. Quando il 6 aprile 2009, poco dopo le 3 e mezza del mattino, una scossa di magnitudo 5,8 della scala Richter ridusse in macerie il capoluogo dell’Abruzzo e 308 persone persero la vita, Marco di Gregorio si trovava con il nonno 82enne sotto il trave del portone della loro casa nella città vecchia. La casa è crollata, la trave ha tenuto. Nonno e nipote sono riusciti a salvarsi. Per loro, come per altri senzatetto, è cominciata una lunga odissea. All’inizio hanno pernottato nel ricovero di emergenza, nel Palazzetto dello Sport, presso parenti e in alberghi. Da due settimane nonno e nipote abitano di nuovo insieme, in un bilocale di nuova costruzione vicino a Via Federico Fellini a Preturo. Gli edifici di tre piani poggiano su spessi cilindri in acciaio, intonacate con strisce giallo pallido e verde chiaro. Gli edifici sono antisismici. Ogni metro quadrato è costato 2700 euro, l’indistruttibilità costa cara.

“Siete i miei primi visitatori dopo il terremoto!”, dice Marco di Gregorio, studente di filosofia. Mostra il suo appartamento: angolo cottura con divano-letto, una camera da letto, un bagno, tutto arredato. “Lenzuola, pentole, tegami, una macchina per il caffè” elenca di Gregorio, “c’è tutto.” Nel nuovo quartiere anche una bottiglia di spumante e un dolce, con un biglietto di auguri stavano aspettando i nuovi arrivati: “Tanti auguri nella nuova casa, il vostro Silvio Berlusconi”. Come se l’appartamento e gli altri doni fossero un regalo personale del Presidente del Consiglio.

Quest’impressione devono averla avuta anche coloro che a causa di quel terremoto sono rimasti senza dimora e ai quali Berlusconi in persona il 29 settembre 2009 ha consegnato le chiavi dei nuovi appartamenti. La data è stata scelta volutamente, era il 73° compleanno di Berlusconi. Il Presidente del Consiglio quel giorno ha interpretato il ruolo del benefattore, una banda militare ha intonato l’inno nazionale e la televisione di Stato ha trasmesso per ore la cerimonia. “Le case di Berlusconi”, così vengono chiamati a L’Aquila i nuovi edifici per le vittime del terremoto. Sebbene lui non le abbia né progettate, né costruite e tantomeno pagate. Ma riceve i senzatetto come se fossero suoi ospiti, un gesto a metà strada tra un feudatario e un proprietario di albergo. Di voi non si occupa la madrepatria, ma Silvio Berlusconi.

Il gesto di un esperto di media. Fin dall’inizio è stato il grande protagonista del paesaggio in macerie dell’Aquila. Lo scorso anno Berlusconi si è recato ben 25 volte nella città devastata dal terremoto, qui ha tenuto riunioni del governo e addirittura il vertice del G8. All’Aquila ha voluto dar prova della sua fermezza nel gestire situazioni di crisi, un uomo che agisce anzichè parlare, che decide invece di discutere. “Dopo il terremoto in Abruzzo abbiamo reagito velocemente e efficacemente come mai era accaduto prima in Italia”, ha scritto Silvio Berlusconi agli italiani poco prima delle elezioni regionali nelle scorse settimane. Questa è una dimostrazione di un “governo del fare, mentre l’opposizione diffonde solo intrighi, pessimismo e previsioni catastrofiste.”

Berlusconi, uomo del fare. Aveva iniziato un tempo come imprenditore edile e, anche se non lo è più da tempo, si è comportato così anche in Abruzzo. Negli anni Settanta aveva edificato nella periferia della sua città natale Milano, la città-satellite Milano 2. E il giorno del terremoto ha promesso “L’Aquila 2”, nuovi insediamenti per i senzatetto. “New towns”, le ha chiamate Berlusconi. A un anno di distanza ci sono già 21 new towns in cui vivono nel frattempo 14.700 persone. Un’operazione gigantesca, così tanti appartamenti per così tante persone in un tempo tanto breve. Ma è questa la soluzione?

“Ora che si sono spenti i riflettori , siamo soli.”

In alcune new towns come Preturo manca ancora l’allaccio alle fognature. C’è un campo di calcio, ma non ci sono né un bar né un’edicola. La nuova L’Aquila è composta da piccole e chiassose città-satellite in cui convivono persone che prima non avevano mai vissuto insieme, senza spazi o piazze in cui potersi incontrare. Per una progettazione migliore non c’è stato il tempo, al momento 5300 terremotati continuano a vivere negli alberghi sulla costa adriatica a 80 km di distanza. Lo Stato paga per ciascuno di loro 1500 euro al mese e si accolla anche i costi del vitto. Ancora oggi sono a carico dello Stato oltre 52.000 persone che il 6 aprile 2009 hanno perso molto o tutto. Nessuno di essi deve più vivere in tenda o in abitazioni container. Questa è la buona notizia. Ma molti non si sentono solamente mantenuti, ma anche un po’ interdetti.

Marco di Gregorio si sente un ospite. Nella sua nuova casa dice di non sapere nemmeno dove si trovi l’interruttore generale della corrente. “É tutto sistemato, ogni cosa viene sbrigata al posto nostro, non dobbiamo prenderci la responsabilità di niente, ma chiamare la protezione civile per il più piccolo problema.” La protezione civile gestisce gli alloggi. Di Gregorio sottolinea di non volersi assolutamente lamentare. L’assistenza dopo la catastrofe ha funzionato in modo eccellente. Il problema è la passività a cui, da circa un anno, sono condannate le vittime del terremoto. Come gente che riceve l’elemosina, dice Marco di Gregorio: “siamo alloggiati qui e dobbiamo dimenticare L’Aquila, perché la nostra città non esiste più”.

“L’Aquila 1″, cittadina medievale fondata dagli svevi, ricca di chiese e monumenti, sta ancora aspettando la sua ricostruzione, finora invano. Nella devastata città antica si può entrare solo con un nullaosta del sindaco. Soldati in mimetica sorvegliano le strade: pericolo di crollo! In effetti molti luoghi appaiono come subito dopo il terremoto. Distrutti, senza vita, abbandonati, uno scenario tra macerie e rovine. Ad alcune case mancano le facciate, nelle stanze vuote i mobili sono ancora al loro posto, come in attesa dei proprietari. Il terremoto ha ridotto L’Aquila in quattro milioni di tonnellate di macerie.

“Tra dieci anni porteremo ancora via macerie da L’Aquila”, ha dichiarato Gianni Chiodi, l’attuale commissario governativo per la ricostruzione. Protezione Civile ed esercito iniziarono a portare via detriti il 18 marzo, un mese buono dall’inizio del “movimento delle carriole” degli aquilani. Con le loro carriole migliaia di abitanti ogni domenica rimuovono e portano via pietre nella città abbandonata. Vogliono fare finalmente qualcosa.

Se si sta nella tendopoli ad aspettare un piatto di minestra non si può organizzare una protesta, dice Luca Cococcetta. “Eravamo come pietrificati. Ma ora vogliamo riappropriarci della nostra città”. L’ingegnere specializzato lavora come documentarista, da un anno conosce un unico soggetto: la sua città, L’Aquila. Cococcetta riprende da mesi le scene dopo la catastrofe. “Quando le prime carriole hanno risalito la collina verso la città antica, abbiamo capito che finalmente è cambiato qualcosa. Stiamo reagendo. Non siamo più comparse di Silvio Berlusconi sullo scenario di macerie.” Ogni volta che il presidente del consiglio ha visitato il territorio terremotato c’è stata la televisione. In occasione del vertice del G-8 il mondo intero ha osservato L’Aquila. “Ora i riflettori sono spenti”, dice Cococcetta “e noi siamo soli”.

Subito dopo il terremoto Berlusconi aveva disposto di trasferire nel territorio della catastrofe il vertice pianificato sull’Isola della Maddalena in Sardegna. Con esorbitanti costi aggiuntivi per i contribuenti: per le strutture allestite per il vertice e mai utilizzate alla Maddalena erano già stati spesi 300 milioni di euro, il trasferimento a L’Aquila è costato altri 200 milioni di euro. In compenso la cittadina distrutta è stata per un paio di giorni al centro degli accadimenti mondiali e i capi di stato e di governo presenti hanno promesso aiuti per la ricostruzione.

L’eroe ovunque osannato pare essersi arricchito con i contratti per la ricostruzione.

Le assegnazioni sono state sottoscritte prima che fosse reso pubblico uno scandalo per corruzione a febbraio. Si tratta del discutibile affidamento degli appalti da parte della Protezione Civile. La magistratura sta ancora indagando su chi si sia arricchito nei lavori di costruzione per il vertice dei G-8. Nel mirino vi sono imprenditori, politici e il capo della Protezione Civile Guido Bertolaso. Sono state così avviate indagini a carico di un imprenditore le cui costruzioni sono crollate con il terremoto come castelli di carta. Dieci persone hanno perso la vita. Ciononostante l’imprenditore ha ricevuto da parte della Protezione Civile nuovi contratti per un ammontare di 15 milioni di euro.

Il sospetto di corruzione sulla Protezione Civile amareggia la gente a L’Aquila. Per loro Bertolaso era un eroe. Con il suo intervento nella zona del terremoto Bertolaso era divenuto così popolare che Berlusconi lo aveva nominato segretario di Stato e gli aveva promesso un incarico ministeriale. Ora il sospetto su Bertolaso riguarda anche Berlusconi. Il capo del governo ha voluto fare dell’Aquila una pietra miliare del suo mandato governativo, la cittadina distrutta probabilmente diventerà ora il suo banco di prova. A L’Aquila si ripeterà tutto ciò che tanto spesso è successo in Italia dopo un terremoto? Scandali di corruzione e una ricostruzione rimandata per decenni?

Ancora oggi a Messina c’è gente che vive nelle baracche che furono costruite per le vittime del terremoto del 1908, l’esempio forse più eclatante della durata infinita della provvisorietà italiana. Ad Avellino, dove nel 1980 un terremoto costò la vita di oltre duemila persone e la camorra guadagnò miliardi nella ricostruzione, ci sono ancora i container, lo stesso in Umbria, dove la terra tremò tredici anni fa. Quando risorgerà L’Aquila?

Commercianti hanno le loro attività ai piedi della vecchia città distrutta. Negozi, ristoranti e società assicurative si sono sistemati in casotti di legno. Lungo Via della Croce Rossa vi sono blocchi di casupole in cui si ammassano auto a tutte le ore del giorno. Questa orrenda strada con le sue baracche di legno è il nuovo cuore di quella che un tempo era una bella città.

Le case di legno hanno pur sempre un vantaggio. Si possono smantellare velocemente, non formano una nuova L’Aquila 2 e non fanno concorrenza a L’Aquila 1. Ma nelle case di legno sono alloggiate solo 1600 senzatetto, dieci volte tanti vivono nelle costose e lontane new towns. Uno degli inquilini delle case di legno è Vincenzo Chiarizia, 26 anni, studente di Linguaggio Pubblicitario. Vive con i suoi tre fratelli in un insediamento di case di legno tinta grigio-azzurro subito sotto alla città antica. A Chiarizia piace il suo nuovo appartamento, anche quando si sente qualche scossa, la terra continua a tremare. Ma qualcosa rovina ancora il sonno a Chiarizia: non trova lavoro. Il terremoto ha spazzato via 8000 posti di lavoro a L’Aquila. Chiarizia si è subito rivolto a un call-center. “Lì si trova sempre lavoro”, dice. In fondo un call-center non ha bisogno di una città.

[Articolo originale "Silvios milde Gaben" di Birgit Schönau]