sabato 8 maggio 2010

IL DELFINO DI BRESCIA: L'Italia cinica delle trame e il generale dei Carabinieri


07/05/2010 Da: giovanepravda su /isintellettualistoria2.myblog.it 

IL DELFINO DI BRESCIA
di Sandro Provvisionato
Mentre si celebra nel silenzio totale il processo per la strage di Brescia, noi qui raccontiamo la vera storia del generale Francesco Delfino, la cui carriera ha attraversato tutti i buchi neri del Paese, dall’eversione alle stragi, dal terrorismo alla mafia, dai sequestri della ‘ndrangheta a quelli dell’Anonima sarda.

Se non fosse per l'eccezione (peraltro doverosa) di un giornale locale, oltreché dell'Ansa, di un processo in svolgimento da cento udienze non sapremmo nulla, ma proprio nulla. E' il processo che si celebra ben 36 anni dopo il fatto: la strage avvenuta in piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974, durante un comizio sindacale, che provoco' 8 morti e 94 feriti.
Per la verità si tratta del settimo processo, originato da una terza istruttoria. Occorrerebbe più spazio di questa rubrica per analizzare la rimozione generale che contraddistingue questa strage di marca neofascista, ma con evidenti e chiarissime implicazioni dei corpi dello Stato ed in particolare dei carabinieri.
L'importanza di questo processo che - lo dico con indignazione - quasi certamente, anche questa volta, non porterà ad alcuna condanna (il troppo tempo passato c'entra eccome) sta nell'emergere dalle tante testimonianze di uno spaccato d'Italia che continua a restare sconosciuta: l'Italia cinica delle trame in cui ad uno sgangherato gruppetto di militanti di estrema destra si affiancarono uomini di rilievo dei servizi segreti della Repubblica, una divisione interamente piduista dei carabinieri, la divisione Pastrengo, e perfino agenti venuti da oltreoceano.
Sul banco degli imputati siedono cinque persone: gli ordinovisti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, gia' condannati in primo grado e poi assolti per la strage di piazza Fontana di tre anni e mezzo prima; Pino Rauti (suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno), gia' segretario del Msi-dn; Massimo Tramonte, il “pentito” di Ordine nuovo poi pentito di essersi pentito, ed il generale a riposo Francesco Delfino, gia' implicato in mille storiacce di mafia e terrorismo e condannato poi per estorsione del suo amico Giuseppe Soffiantini, vittima di un sequestro, legato ai vertici piduisti che guidavano all'epoca la divisione dei carabinieri Pastrengo.
E' su quest'ultima figura di “uomo dello Stato” che vorrei fermare l'attenzione.
Chi e' Francesco Delfino? Quando all'inizio degli anni Ottanta cominciano i “regolamenti di conti” all'interno delle mura carcerarie tra le prime vittime c'e' il militante nero Ermanno Buzzi. Un altro nero, Pierluigi Concutelli, assassino del giudice Occorsio, il 13 aprile 1981, assieme a Mario Tuti si incarica di strangolare con i lacci delle scarpe proprio Buzzi, maggior imputato della strage di Brescia. Buzzi era stato tirato in ballo da un suo camerata, Angelino Papa, a sua volta “gestito” da un controverso ufficiale dei carabinieri, un militare assai spregiudicato: proprio il generale Francesco Delfino.
E' infatti il capitano Delfino che, il 6 marzo 1975, a quasi un anno dal massacro, raccoglie le prime parole di un neofascista bresciano, Angelino Papa, una specie di “pentito” ante litteram, che della strage accusa se stesso e il suo camerata Ermanno Buzzi. Condannati entrambi in primo grado, verranno assolti in appello sette anni dopo quando Buzzi e' gia' stato assassinato.
Il 18 aprile 1978, nel corso di un'udienza dibattimentale, Papa ritratta, accusa, autoaccusa e dichiara: «Il capitano Delfino mi chiamò in disparte e mi disse: “Noi sappiamo che Buzzi c'entra con la faccenda della strage; se tu ci dai delle notizie, se collabori, per te c'e' un regalo di 10 milioni. Per chi dà notizie c'e' questo regalo. Ti assicuriamo che ti terremo in disparte, non preoccuparti, tu esci”. Io dicevo che non sapevo niente di questo fatto. Il capitano Delfino mi disse che dovevo confermare quello che mi dicevano i magistrati se volevo salvarmi».
Interrogato in merito, il capitano Delfino ribatte: «Angelo Papa era tutto rosso in faccia e continuava a bestemmiare ed imprecare. Gli dissi: Cosa bestemmi a fare? Se anche ti promettessi di farti scappare, se anche ti promettessi 10 milioni, cose del tutto impossibili, tu non risolveresti il tuo problema”». Insomma, nessun tentativo di subornazione di teste. Per Delfino è il povero Papa che scambia il condizionale per il presente.
Facciamo ora un passo indietro di due anni. E’ il 22 marzo 1976. L'azione si sposta alla Stazione Centrale di Milano. Un gruppo di carabinieri in borghese si muove lungo il binario 8 dove è in arrivo il rapido Venezia-Milano-Torino delle 21.30. Aspettano che dal treno scenda un brigatista rosso, Giorgio Semeria, tra i fondatori delle Br, di cui probabilmente è diventato il nuovo capo dopo l'arresto di Renato Curcio.
Semeria scende dal convoglio e viene immobilizzato. Poi un brigadiere gli spara, uno strano colpo al fianco che dovrebbe trapassargli entrambi i polmoni e farlo morire soffocato dal suo stesso sangue. E' la stessa tecnica usata per uccidere la moglie di Renato Curcio, Mara Cagol. Il militare si giustificherà dicendo che il terrorista stava per estrarre una pistola dalla tasca. Peccato che l'arma, una mastodontica Smith e Wesson che non può stare in alcun tipo di tasca, Semeria l'avesse nella cintura ancora al suo arrivo in ospedale dove, grazie al tempestivo intervento dei medici, per puro miracolo, si salva.
I carabinieri sono così convinti che Semeria sia morto che quando si accorgono del contrario si precipitano in ospedale nel tentativo di portarselo via, ma si scontrano con l'intransigenza dei sanitari. Quei carabinieri finiscono sotto inchiesta per tentato omicidio. A comandarli era sempre lui: Francesco Delfino.
Piccoli incidenti di percorso che non impediscono all'ufficiale brillante carriera.
Nel 1981 lo ritroviamo in Libano, nelle file del Sismi, con il grado di colonnello, al fianco di un altro colonnello più famoso di lui, Stefano Giovannone, l'uomo fidato di Aldo Moro, esponente in prima linea della politica filoaraba di una parte almeno dei governi italiani dell'epoca. Ed è così che il nome di Delfino finisce negli atti dei magistrati della procura di Bologna che indagano sulla strage alla stazione del 2 agosto 1980 nel capitolo dedicato alla cosiddetta “pista libanese”, un altro clamoroso depistaggio del servizio segreto militare italiano.
Dopo il Libano, per Delfino arriva un lungo soggiorno negli uffici di New York del servizio, prima di tornare in Italia nel 1987, generale dei carabinieri, questa volta a interessarsi di mafia. Viene inviato a Palermo come vicecomandante della Legione. Vi rimane qualche anno per poi tornare al nord.
Ed è al nord qui che, guarda caso, a Delfino capita tra le mani Baldassarre Di Maggio, detto “Balduccio”, il grande accusatore di Andreotti, l'uomo che racconterà del bacio tra il più volte presidente del Consiglio e il capo di Cosa nostra, Salvatore Riina. Il 9 gennaio 1993 Balduccio confida a Delfino come fare per catturare il boss dei boss, Totò Riina. Il 15 gennaio Riina viene catturato ma in realtà, oggi sappiamo, su soffiata di Provenzano, tramite Vito Ciancimino. Poco dopo Delfino riceve un avviso di garanzia: diversi “collaboratori di giustizia” lo indicano come “referente” di Antonio Nirta, ‘ndranghetista, tra i boss più importanti dell'organizzazione criminale insediata nel milanese. Secondo il “pentito” Morabito, Nirta era addirittura in via Fani il giorno dell'agguato ad Aldo Moro e alla sua scorta.
Ma, stranamente, tutto finisce nel nulla: i riscontri alle dichiarazioni dei “pentiti” non si trovano. Come non si trovano riscontri ad un'altra accusa: l'unico brigatista ancora oggi latitante del commando che entro' in azione in via Fani, Alessio Casimirri, riparato in Nicaragua, avrebbe parlato del sequestro di Moro proprio a Delfino il 14 marzo, due giorni prima che il rapimento avvenisse realmente.
Ma la tegola piu' grossa casca sulla testa di Delfino qualche anno dopo. La procura di Brescia lo accusa di concussione ai danni dei famigliari di Giuseppe Soffiantini, un imprenditore sequestrato il 17 giugno 1997 e rilasciato dopo otto mesi.
Furono i Soffiantini a consegnare al generale Delfino 800 milioni delle vecchie lire per ottenere la liberazione del loro congiunto. L'Arma lo sospende dal suo incarico.
Il 10 aprile 1998, nella villa di Meina (Novara) del generale Francesco Delfino, vengono trovati 30 milioni e le due valigie che avevano contenuto l'intera somma. Quattro giorni più tardi il generale viene arrestato. Comincia per lui un lungo iter giudiziario che si concluderà il 23 gennaio 2001 quando la Cassazione rende definitiva la sua condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione per truffa aggravata.
Ha scritto Gianni Barbacetto: «La storia di Delfino e' la storia degli incubi della Repubblica. La sua carriera ha attraversato tutti i grumi oscuri del Paese, dall'eversione nera alle stragi, dal terrorismo rosso alla mafia siciliana, dai sequestri di persona della ‘ndrangheta calabrese fino a quelli dell'Anonima sarda».
Finora dal processo il ruolo di Delfino e' emerso pienamente come depistatore e subornatore di testi.
Nell'udienza del 1 ottobre 2009 a parlare del generale è stato l'avvocato Aldo Tedeschi, all'epoca dei fatti difensore di Ermanno Buzzi. Negli atti della prima istruttoria sulla strage - ha raccontato Tedeschi - c'era un documento in cui si riferiva di una riunione in cui si decise che si sarebbe dovuto “costruire un colpevole”.
A quella riunione, secondo il teste, parteciparono «ll pubblico ministero Francesco Trovato, l'onorevole missino Giorgio Pisanò e l'allora capitano dei carabinieri Francesco Delfino il quale avrebbe detto: “Io ho la persona giusta che puo' fare da capro espiatorio, bisogna solo lavorarla ai fianchi”».
Come Delfino cercò di “lavorare ai fianchi” Buzzi lo abbiamo visto. Ma c'è anche un altro testimone che accusa il generale. E' Ombretta Giacomazzi, oggi 53enne, che all'epoca della strage aiutava i genitori nella pizzeria Ariston, ritrovo di neofascisti. Nel 1975 Ombretta, che in seguito ha sposato un figlio di Soffiantini, venne arrestata con l'accusa di falsa testimonianza. Rimase in carcere per otto mesi e qualche giorno fa al processo ha raccontato delle «pressioni subite allora per coinvolgere persone che non hanno avuto alcun ruolo nelle vicende da me narrate. Avevo 17 anni e il capitano Delfino mi diceva “se parli esci, altrimenti l'accusa passa da falsa testimonianza a concorso in strage”». Cosi' la donna rilasciò delle dichiarazioni false.
Nella strage di Brescia chi ha voluto coprire il generale Francesco Delfino?

Omicidio Calvi, ancora senza movente né assassini


7 maggio 2010 www.rainews24.rai.it 
Per il pm Tescaroli lo hanno ucciso due volte. Così commenta la sentenza della Corte d'Assise d'appello di Roma di ieri nella quale, per insufficienza di prove, sono stati assolti come in primo grado Calò, Diotallevi e Carboni. Calvi fu trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra nel 1982.

Il Pm: Calvi ucciso due volte
"La sentenza di oggi, pur assolvendo gli imputati, conferma che Roberto Calvi è stato assassinato. La sentenza va rispettata in quanto espressione di democrazia ma
bisogna riflettere perch‚, nella prospettiva dei familiari del banchiere, questa pronuncia uccide due volte Calvi".

Cosa ha detto il pm Luca Tescaroli dopo la sentenza della corte d'assise d'appello che ha confermato l'assoluzione, per insufficenza di prove, di tutti gli imputati.
Il magistrato, che è stato applicato anche per il processo di seconda istanza, ha aggiunto: "Ricordiamo che i congiunti di Calvi hanno dovuto attendere 18 anni prima che venisse riconosciuto il reato di omicidio. Ora valuteremo se presentare
ricorso in Cassazione: leggeremo le motivazioni di una sentenza che comunque convalida il lavoro fatto".


Parla uno degli imputati
"E' stato un errore giudiziario. Sono piu' che mai convinto che Roberto Calvi si sia suicidato". Dopo la conferma, anche in secondo grado, dell'assoluzione per il delitto
dell'ex presidente del Banco Ambrosiano, parla a 'Radio 24' Flavio Carboni, uno dei tre imputati. "Dopo 28 anni, non ci si abitua a sentirsi vomitare addosso accuse orrende", commenta a Radio 24.

La prima corte d'assise d'appello di Roma ha confermato l'assoluzione per l'imprenditore di origine sarda Flavio Carboni, Pippo Calo' ed Ernesto Diotallevi, imputati di concorso in omicidio volontario premeditato in relazione alla morte di Roberto Calvi, l'ex presidente del vecchio Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri, a Londra, il 18 giugno del 1982.


Tutti assolti per insufficienza di prove
In aula, al momento della sentenza letta dal presidente Guido Catenacci dopo oltre tre ore di camera di consiglio, c'era soltanto Ernesto Diotallevi. Calo', detenuto
ad Ascoli Piceno, era collegato in videoconferenza. Assente, invece, Carboni che pure aveva seguito tutte le udienze del processo d'appello.

La sentenza e' stata emessa dopo due ore di camera di consiglio dal primo collegio presieduto da Guido Catenacci. La sentenza di oggi conferma, quindi, quella emessa in primo grado il 6 giugno 2007. Il rappresentante dell'accusa, Luca Tescaroli, aveva chiesto la condanna all'ergastolo dei tre imputati per l'omicidio dell'ex presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri. Dalla vicenda
erano gia' usciti di scena, con sentenza di assoluzione passata in giudicato, Silvano Vittor e Manuela Kleinzing. L'accusa per Carboni, uomo d'affari, Calo', ex cassiere della mafia, e Diotallevi, gia' coinvolto in indagini sulla banda della Magliana (solo quest'ultimo era in aula oggi) era quella di aver organizzato la morte di Calvi, in concorso tra loro e con altri non ancora identificati, avvalendosi delle
organizzazioni criminali di tipo mafioso "per punirlo di essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle organizzazioni criminali".

Falcone e 007, mossa dell’Antimafia


www.corriere.it - 08 maggio 2010 di Alfio Sciacca. 
Palermo - Anche il Copasir interviene. Il Pd: ora si cerchi la verità dopo anni di omissioni e depistaggi
Falcone e 007, mossa dell’Antimafia
I servizi dietro l’attentato all’Addaura?

PALERMO — Misteri vecchi e nuovi sul fallito attentato all’Addaura all’esame della Commissione Parlamentare antimafia e del Copasir, l’organo di controllo sui servizi segreti. Ad annunciarlo è stato il presidente dell’antimafia, Giuseppe Pisanu che allo stesso tempo ha concordato con il presidente del Copasir, D’Alema, di «valutare insieme gli aspetti della vicenda che possano riguardare i servizi segreti». Tutto nasce dall’anticipazione del libro del giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni sul ruolo di pezzi dello Stato dietro al fallito attentato contro il giudice Giovanni Falcone, del 21 giugno ’89. Una ricostruzione, in parte già fatta anche in altri libri, secondo la quale nei pressi della villa al mare del magistrato c’erano due differenti gruppi «uno a terra formato da mafiosi e uomini dei servizi segreti e l’altro in mare su un canotto con a bordo due sub». Questi ultimi, che poi avrebbero evitato l’attentato, potrebbero essere gli agenti Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, successivamente uccisi. Insomma sulla scena dell’attentato c’erano due pezzi separati dello Stato: l’uno che voleva la morte di Falcone e l’altro che di fatto lo ha protetto. Uno scenario che potrebbe portare a riscrivere la storia di quegli anni dando forza all’ipotesi dei mandanti esterni dietro la stagione del terrore culminata con le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Un quadro che potrebbe farsi più chiaro se verrà identificato quel misterioso agente dei servizi, noto come «signor Franco o Carlo », che fa capolino sulla scena dei tanti misteri siciliani. Il tutto potrebbe anche avere ricadute giudiziarie.


Per l’attentato all’Addaura sono stati condannati Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia ma anche Vincenzo ed Angelo Galatolo. E alla luce delle ultime rivelazioni il legale di quest’ultimo, Giuseppe Di Peri, ha annunciato che sta valutando se chiedere la revisione del processo. «Secondo la tesi accusatoria – spiega - il mio assistito è stato incastrato da una pinna da sub la cui misura corrispondeva al suo piede. Ma da quello che leggo i cattivi sono venuti da terra e non dal mare. I sub invece erano i buoni». Sul ruolo di entità esterne alla mafia interviene anche il procuratore antimafia Pietro Grasso: «Dietro le tante stragi spesso è sembrato esserci un movente non perfettamente coincidente con quello delle organizzazioni mafiose. Ma la mia – precisa - è una valutazione ipotetica e generale. E visto che ci sono indagini ancora in corso non posso dire nulla di più». Da più parti si chiede di far subito chiarezza, soprattutto sul ruolo dei servizi. «Sono rivelazioni che possono aiutare a rileggere non solo il sacrificio di un giudice ma tutta la storia del rapporto tra mafia e potere – dice Walter Veltroni -, Pisanu deve dedicare la seduta di martedì all’esame urgente di questa vicenda. La Commissione Antimafia non può chiudere gli occhi e credo sia giusto che si chieda al procuratore Grasso di partecipare alla seduta». «Dopo anni di depistaggi e omissioni – aggiunge il senatore, sempre del Pd, Giuseppe Lumia - non si può più tergiversare. La verità deve venire fuori in modo chiaro e limpido. La Commissione antimafia assuma in prima persona questa missione». Sollecitazioni analoghe arrivano anche dal capogruppo al Senato del Pd Finocchiaro e dall’eurodeputato dell’Idv De Magistris.

Alfio Sciacca
08 maggio 2010
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Il golpe di Via Fani svela le sue ombre


Di Gino Gullace Raugei su /www.oggi.it 
Si è sempre creduto che il nodo inestricabile dei mille misteri che hanno caratterizzato una delle vicende più oscure d’Italia fosse nei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro. Invece, la chiave del giallo è nei poco più di 55 secondi che si impiegano per percorrere 400 metri di alcune anonime strade di Roma: chi ha avuto interesse ad eliminare dalla scena il presidente della Democrazia cristiana che con la forza delle sue idee turbava pesantemente i delicati equilibri politico-militari dell’Alleanza atlantica e la logica del mondo diviso in due blocchi, proprio qui lascia la sua firma. E le Brigate rosse? Non furono che uno strumento, più o meno inconsapevole, di una inquietante trama molto più grande di loro? La nostra è stata un’inchiesta lunga, faticosa e difficile. Alla fine, siamo riusciti a ricomporre secondo un rigido ordine logico tutte le tessere del puzzle. Ecco che cosa abbiamo scoperto.

LA MATTINA DELL’AGGUATO

Giovedì, 16 marzo 1978, è una mattina di cielo plumbeo e aria frizzantina: la dolce primavera romana si fa attendere. La Fiat 130 blu ministeriale di Aldo Moro e l’Alfetta bianca di scorta spuntano invece puntuali, alle 9.01, da un largo curvone di Via Trionfale, nel quartiere di Monte Mario. Il presidente della Dc, che abita lì vicino, e i cinque uomini della sua scorta (il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, le guardie di Pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera e il brigadiere Francesco Zizzi) sono diretti alla Camera dei deputati dove quel giorno si vota per la nascita della controversa creatura politica di cui lo statista pugliese è il padre storico: il governo Andreotti IV, un monocolore Dc con l’appoggio esterno - per la prima volta nella storia della Repubblica - del Partito comunista. «Via Trionfale», come si legge sul quotidiano Il Tempo, in un articolo del 17 marzo 1978, «è il percorso più diretto verso il centro dell’Urbe». Eppure, Moro e la sua scorta rallentano all’improvviso e svoltano a sinistra, sulla stretta Via Mario Fani, correndo ignari all’appuntamento con la morte. «Infinite volte, mi sono chiesta come potevano essere le Brigate rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora, in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato da Via Fani», dichiarò la signora Eleonora Chiavarelli, vedova dello statista, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage della scorta, sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, nell’udienza del 1° agosto 1980. Un dubbio atroce che, tra indagini lacunose, reticenti, frammentarie o, addirittura, inesistenti, non ha avuto mai una risposta. Eppure in quel chilometro scarso che separa Via del Forte Trionfale 79 (dove al tempo abitava la famiglia Moro) e l’incrocio di Via Trionfale con Via Fani c’è qualcosa di non trascurabile importanza che proprio non torna. In quei mille passi, come direbbe un giallista, c’è probabilmente la traccia decisiva per identificare i complici di quel gravissimo delitto. E, attraverso di loro, identificare probabilmente il mandante. Tra le quattro o cinque alternative di itinerario possibile, qualcuno insospettabile indirizzò Aldo Moro sul percorso meno conveniente, ma fatale. Senza il concorso di questo qualcuno l’agguato delle Brigate rosse non avrebbe probabilmente mai avuto luogo.

BASTAVA PEDINARLO?

Dal punto di vista della verità ufficiale, cioè giudiziaria, le deposizioni fondamentali per ricostruire le dinamiche del clamoroso agguato brigatista furono rilasciate tra il 13 e il 26 settembre 1978 dai cinque agenti superstiti della scorta di Moro (che il giorno della strage erano di riposo o in licenza) interrogati uno per volta dai giudici istruttori Ferdinando Imposimato e Achille Gallucci. «Ogni mattina il presidente Moro si recava sempre alla messa delle ore 9 nella chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici», dicono, parola più, parola meno, l’appuntato dei carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di Pubblica sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo e gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana. «Il percorso seguito era sempre lo stesso, il più breve e il più veloce: via del Forte Trionfale, via Trionfale, via Fani, via Stresa, via della Camilluccia fino a piazza dei Giuochi delfici». L’agente Pampana, nella sua deposizione, aggiunge un particolare molto preciso: «L’onorevole Moro usciva, costantemente, salvo rare eccezioni, intorno alle ore 9. Era precisissimo nell’orario, nel senso che poteva anticipare o posticipare l’ora di uno o due minuti». Stando così le cose, tutto sembra sufficientemente chiaro: alle Brigate rosse - come racconteranno in seguito i vari Moretti, Morucci, Faranda e compagnia - è bastato pedinare neanche troppo a lungo Moro e la scorta per avere una precisa contezza delle loro abitudini e quindi per scegliere il punto più adatto dove posizionare la trappola mortale.

LA VERSIONE DI ELEONORA

Eppure, il 23 settembre 1978, la signora Eleonora Moro, interrogata dal giudice istruttore Achille Gallucci, smentisce clamorosamente le deposizioni dei primi tre agenti (Gentiluomo, Pallante e Riccioni, ascoltati il 16 settembre). «Non posso affermare», dice la signora Eleonora, «che mio marito sia stato un abitudinario. Per quanto attiene all’orario di uscita del mattino, non è esatto quanto affermato dai superstiti della scorta. Essi, come la Signoria vostra mi precisa, sostengono che l’onorevole Moro era solito uscire di casa verso le ore 9. Invece, particolarmente negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, egli non aveva mai un orario fisso di uscita poiché bastava una telefonata per fargli cambiare il programma della giornata. Era solito andare a messa tutti i giorni, anche nel pomeriggio, a seconda dei suoi impegni. Egli, fra l’altro, cambiava spesso le chiese, frequentando quella di Santa Chiara, a Piazza dei Giuochi delfici, ma anche quella di San Francesco, sulla Via Trionfale, oppure quella del Gesù, in viale Regina Margherita ed altre ancora. «Faccio altresì presente», aggiunge la vedova di Moro, «che mio marito non faceva di solito la stessa strada e ciò per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso veniva deciso al momento da mio marito e dal maresciallo Leonardi, il caposcorta. La sua auto percorreva alle volte Via Cortina d’Ampezzo, alle volte Via Fani, alle volte Via Trionfale». Malgrado gli altri due agenti superstiti della scorta, Pampana e Lamberti, vengano convocati dallo stesso Giudice Gallucci tre giorni dopo la signora Moro, non vi è traccia nei verbali dei loro interrogatori di alcun contraddittorio mirato a far luce su testimonianze tanto divergenti.

“PARTICOLARI” TRASCURATI

A 32 anni di distanza dal fatto ci rechiamo dall’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato con i verbali di quegli interrogatori che lui stesso contribuì a raccogliere. «Non c’è dubbio», dice Imposimato, scorrendo le carte, «che le deposizioni fotocopia degli agenti sembrano concordate. Qualcuno, evidentemente, gli avrà ordinato di dire quelle cose. Perché non ce ne siamo accorti subito? Perché in violazione del codice di procedura penale del tempo, gli atti del rapimento Moro non furono trasmessi all’ufficio del giudice istruttore entro 40 giorni dal fatto, ma ben 64 giorni dopo, esattamente il 19 maggio. A quella data Moro era già stato ucciso e l’obiettivo era assicurare alla giustizia i brigatisti colpevoli. Un particolare come quello degli orari e dei percorsi della scorta è sembrato minore».

PARLA LA FIGLIA

Sempre a proposito degli orari e degli itinerari seguiti da Moro e la sua scorta, ecco ciò che dichiarò sua figlia Agnese ai giudici della corte d’Assise di Roma che stavano processando i brigatisti assassini nell’udienza del 20 luglio 1982: «Vorrei sottolineare che mio padre non faceva sempre gli stessi percorsi, che Via Fani non era che una delle strade che potevano essere percorse la mattina come nel corso della giornata, anche perché è una strada stretta, disagevole, spesso trafficata. I percorsi si cambiavano spesso perché c’erano delle preoccupazioni da parte di mio padre, inerenti al suo ruolo politico, preoccupazione per sé e per i familiari». «Vorrei sapere dalla teste se sa chi decideva il cambio dei percorsi nel trasferimento del padre dall’abitazione nei vari posti dove doveva recarsi», chiede l’avvocato Enzo Ciardulli, dell’Avvocatura di Stato. «Io ho sentito abbastanza frequentemente non delle discussioni in senso polemico, ma delle conversazioni fra Ricci e Leonardi al momento di uscire di casa sul percorso da scegliere. A volte mi è capitato anche di sentir dire: mi hanno detto che lì c’è traffico, passiamo da un’altra parte. I percorsi credo che poi venissero stabiliti anche a seconda del ritardo in cui era mio padre per arrivare a destinazione, cioè anche alla messa della mattina: spesso non ci andava più perché magari era in ritardo, cosa che gli capitava in maniera frequentissima. Quindi, voglio dire che c’era anche questa variabile di quello che poi succedeva realmente la mattina, cioè quale era l’orario effettivo di uscita di casa di mio padre». «Poteva capitare», chiede il presidente della giuria, «che il percorso da fare la mattina veniva stabilito la sera precedente?». «Non credo proprio», dice Agnese. «Mi pare veramente impossibile anche perché mio padre era un tipo veramente ritardatario, quindi, magari, usciva con tre quarti d’ora di ritardo rispetto all’orario previsto e magari avevano deciso di andare prima in un posto eppoi non ci potevano più andare perché l’orario era passato. Sono sicura che i percorsi venivano stabiliti la mattina stessa». «Quindi il percorso di Via Fani la mattina del 16 marzo venne stabilito casualmente quella mattina stessa?», chiede l’avvocato Ciardulli. «Credo proprio di sì», risponde Agnese Moro. «Questa Via Fani era uno dei percorsi che si facevano?», domanda il presidente. «Sì, ma ce n’erano parecchi», precisa Agnese Moro. «Altre volte era passato da Via Fani suo padre?», dice il presidente. «Sì», spiega Agnese Moro, «però non è che il percorso di Via Fani corrispondeva all’andare, poniamo, sempre per fare un esempio concreto, alla Chiesa di Santa Chiara perché per andare in Piazza dei Giuochi delfici passava indifferentemente da lì oppure da via Cortina d’Ampezzo. Questo per rendere l’idea, non è che per andare in un posto abituale c’era sempre quella strada. Anche per andare in un posto abituale ci potevano essere vari percorsi».

CAMBI DI PERCORSO

«Nelle settimane precedenti l’agguato di Via Fani mio padre era preoccupato per il continuo cambio dei percorsi per raggiungere le varie destinazioni di Moro», ci dice oggi Giovanni Ricci, figlio dell’appuntato Domenico Ricci, autista della Fiat 130 dello statista pugliese. «“Devo guidare a velocità elevata perché il presidente è sempre in ritardo”, spiegava papà, “e siccome transitiamo a volte per strade che non conosco, finirò prima o poi per fare un incidente».

LA NOSTRA PROVA COL GPS

A titolo puramente indicativo abbiamo sottoposto gli itinerari del presidente Moro alla prova del Gps o navigatore satellitare, uno strumento di precisione che allora non esisteva e che oggi serve per determinare la strada più breve e veloce che conviene fare per andare in un certo posto. Parcheggiamo dunque la nostra auto davanti al numero 79 di Via del Forte Trionfale, dove abitava lo statista, e chiediamo al Gps di guidarci verso Piazza dei Giuochi delfici. Lo strumento dice di proseguire per Via Cortina d’Ampezzo, svoltare a destra su via Cassia e poi andare diritti fino alla piazza. In totale sono 4 chilometri che percorriamo in 5 minuti e 42 secondi. Torniamo a Via del Forte Trionfale, 79, e raggiungiamo Piazza dei Giuochi delfici passando stavolta per Via Trionfale, Via Mario Fani, Via Stresa, Via della Camilluccia. L’incrocio tra Via del Forte Trionfale e Via Trionfale non è oggi transitabile nella direzione che ci interessa poiché sono intervenuti dei notevoli lavori di modifica della planimetria viaria che allungano il percorso di circa un chilometro. Sottraendo questa distanza e il tempo che impieghiamo a percorrerla dal dato finale si ottiene che passando per quelle strade si arriva a Piazza dei Giuchi delfici dopo 5 chilometri e 500 metri e quasi 9 minuti a causa delle numerose svolte e incroci con stop. A titolo puramente indicativo, come dicevamo, possiamo affermare che il percorso per Piazza dei Giochi delfici passando per Via Fani, oggi, come allora, non è il più breve né il più veloce.

IL DOCUMENTO SCOMPARSO

Per tagliare la testa al toro, come si suol dire, servirebbe un documento inoppugnabile: il diario della sala operativa del Viminale, relativo al giorno 16 marzo 1978 e precedenti, dove venivano annotati tutti i contatti radio con le auto di scorta e quindi tutti gli orari e tutti i percorsi. A quanto dichiara il dottor Guido Zecca, dirigente dell’ispettorato generale (l’ufficio responsabile dei servizi di scorta) presso il Viminale alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, nella seduta del 7 novembre 1980, «tutti i movimenti venivano sempre controllati dalla nostra sala operativa che segnava su un brogliaccio tutti gli spostamenti. Gli agenti di scorta dicevano: siamo partiti, siamo arrivati in questo punto, siamo qui fermi». Peccato però che questo fondamentale documento sembra misteriosamente scomparso: «Lo abbiamo chiesto ripetutamente», ricorda il senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, «ma non ci è stato mai trasmesso».

IL FIORAIO AMBULANTE

Per saperne di più, non resta che tentare di rintracciare alcuni testimoni, peraltro mai prima d’oggi interrogati. Il primo è Antonio Spiriticchio, il famoso fioraio ambulante di via Fani a cui, nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1978, furono squarciate le gomme del furgone per impedirgli di trovarsi, al momento dell’agguato, proprio nel punto cruciale: in prossimità dello stop all’incrocio con Via Stresa. «Quella mattina dovevo recarmi al mercato generale per rifornirmi di fiori e piante», ricorda Spiriticchio, che oggi ha 82 anni, «perciò uscii di casa verso le 6.30. Quando vidi tutt’e quattro le gomme del mio Transit a terra pensai all’atto vandalico di qualche teppista. La mia prima preoccupazione fu quella di andare comunque al lavoro, rimettendo il furgone in condizioni di circolare: nel cassone, infatti, c’erano molti fiori invenduti il giorno precedente che si sarebbero rapidamente deteriorati aggiungendo danno al danno. Perciò mi detti da fare con un amico gommista che venne a sostituirmi nel più breve tempo possibile le quattro ruote. Ero quasi arrivato a Via Fani, quando la radio dette la notizia dell’agguato». Spiriticchio ricorda Aldo Moro in Via Fani come una presenza abbastanza familiare. «Qualche volta passava in auto col solo Leonardi», dice, «qualche volte scendeva addirittura a piedi con la moglie che si fermava a comprare dei fiori». Ricorda, chiediamo, se Moro e la scorta passavano ogni giorno da Via Fani, più o meno alla stessa ora, verso le 9 del mattino? «No, su questo non ci potrei proprio giurare», risponde Spiriticchio. «Passava spesso, ma non sempre. Dopo l’agguato delle Br mi hanno interrogato un mucchio di volte, ma una domanda del genere non me l’hanno mai fatta».

GLI ALTRI TESTIMONI

I signori Ferrando e Santina, che avevano una rivendita di frutta e verdura sul tratto iniziale di Via Fani, confermano i ricordi del signor Spiriticchio. «Il presidente Moro e la sua scorta passavano frequentemente, ma non possiamo mettere la mano sul fuoco che passassero sempre e alla stessa ora», spiegano. «Quando il presidente passava, io ero intento a sistemare la merce in vetrina», racconta Bruno Marocchini, titolare di una gioielleria. «Me lo ricordo ancora, sul sedile posteriore della Fiat 130, intento a sfogliare i giornali. Passava sempre da Via Fani? Diciamo che passava spesso, ma se non passava non è che mi mettevo a piangere!».

IL PARROCO ATTUALE

A questo punto ci rechiamo alla Chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici, dove incontriamo don Giuseppe, uno dei parroci attuali. «Sto qui da appena sei anni e non sono dunque un testimone diretto dei fatti che vi interessano», premette. «Però sono molto legato alla figura di Aldo Moro perché anche io sono pugliese, di Castellaneta». Don Giuseppe ricorda il bailamme che turbò i ritmi parrochiali quando, circa tre anni fa, la chiesa fu invasa dalla troupe cinematografica che girava la fiction di Canale 5 Aldo Moro, il presidente con Michele Placido nei panni dello statista. «I parrocchiani, specie i più anziani, erano un po’ infastiditi e ricordavano che Aldo Moro, in fondo, frequentava abbastanza saltuariamente la nostra chiesa. Comunque, per saperne di più, dovete cercare il parroco di allora, Gianni Todescato».

IL PARROCO DI ALLORA

Don Gianni, attuale rettore della chiesa di Sant’Agnese a Piazza Navona è un anziano parroco vicentino, molto disponibile e cortese. Infatti accetta volentieri di riceverci. «Sono stato parroco di Santa Chiara per quarantuno anni», dice, «e certo non posso dimenticarmi di Aldo Moro. Proprio il 15 marzo, il giorno prima di essere rapito, gli detti io il sacramento della comunione. Quella mattina, certo prima delle 9, orario di inizio della messa, venne il maresciallo Leonardi a chiedermi la cortesia di somministrare in privato l’eucarestia al presidente che, dovendo tenere di lì a breve un importante discorso, non aveva tempo di assistere alla funzione religiosa». Don Gianni ricorda l’assidua presenza di Aldo Moro anche se ammette: «In tutti gli anni che è venuto alla mia chiesa non abbiamo mai stabilito un rapporto particolare. Riservato sono io e riservatissimo era lui». Gli chiediamo se si ricorda come si disponeva la scorta del presidente fuori dalla chiesa. «Me lo ricordo benissimo: due agenti lo accompagnavano dentro e gli altri tre aspettavano con le auto fuori. Parcheggiavano proprio davanti all’ingresso. Alcune volte arrivavano da Via della Camilluccia; altre volte venivano invece da Via Cortina d’Ampezzo». Ne è sicuro, padre? «Assolutamente: alcune volte venivano da sopra, da Via della Camilluccia; altre volte venivano da sotto, dalla parte di Via Cassia su cui sbocca Via Cortina d’Ampezzo. «Io non sono stato mai interrogato dagli inquirenti», dice don Gianni. «Altrimenti gli avrei detto che per circa due anni, tutte le volte che Moro entrava in chiesa, appariva un giovane sconosciuto in fondo al sagrato. Dopo il rapimento del presidente, quel giovane non si fece più vedere. Secondo me, era un brigatista».

Gino Gullace Raugei

Peppino Impastato non è morto invano


Di Lirio Abbate 
Sono passati trentadue anni da quando il giornalista di Radio Aut, che da Cinisi denunciava gli intrecci tra mafia e politica, fu ucciso sulle rotaie della ferrovia Trapani-Palermo. Non sono trascorsi invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione contro Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso


I funerali di Peppino Impastato
Quella di Peppino Impastato è una storia di coraggio e di riscatto consumata in una terra difficile ma straordinaria. Un ragazzo che negli anni Settanta aveva deciso di dichiarare guerra alla mafia denunciandone gli intrecci illeciti con la politica e i traffici di droga. Lo faceva attraverso Radio Aut, un'antenna libera che Peppino e i suoi amici avevano acceso nel piccolo paese di Cinisi, alle porte di Palermo.

In poco tempo con la sua informazione era diventato una spina nel fianco del capomafia che viveva a cento passi da casa sua. E nell'isolamento di un paese interamente controllato dal potente boss Gaetano Badalamenti, Peppino costituiva per la sua sola esistenza un affronto per il capomafia, rappresentando ogni sua parola una sfida allo strapotere dei mafiosi. Era la libera informazione che non piaceva a Cosa nostra. Come oggi non piace a chi propone leggi bavaglio per i giornalisti. Per questo Impastato andava eliminato con la violenza, e dopo la sua morte calunniato per evitare che diventasse un martire, un simbolo dell?antimafia, creando la messinscena di un Peppino eversore, vittima dei preparativi di un fallito attentato terroristico sui binari della ferrovia.

Era un militante della sinistra extraparlamentare Peppino, e quando viene ucciso ha trent'anni. Lo assassinano in modo atroce, mettendogli nel petto - dopo averlo legato sulle rotaie della ferrovia - una carica di tritolo. Fece rumore, l'esplosione. Un gran fragore ruppe il silenzio la notte dell'8 maggio 1978. Eppure nessuno volle sentire quel botto: Cinisi, già famosa per aver dato i natali a Badalamenti, rimase impassibile, coi suoi uomini d'onore dislocati nei punti strategici del paese a guardare lo svolgimento delle indagini non senza ostentare un ghigno di soddisfazione.

Gli investigatori non vollero sentire neppure la società civile siciliana, e i giornali, come certa magistratura catalogarono immediatamente quel delitto di mafia, il primo della lunga mattanza, come un “incidente” capitato ad un ”terrorista” che stava per compiere un attentato e nello stesso giorno in cui le Brigate rosse restituivano agli italiani il corpo di Aldo Moro. Già, perché Peppino Impastato aveva almeno due “peccati d'origine”: il primo, non era uomo delle istituzioni ma un cittadino semplice; il secondo, era comunista e poco importava se la sua attività di militante, di giornalista che faceva contro informazione dai microfoni della piccola “Radio Aut” , era rivolta esclusivamente a denunciare gli interessi dei mafiosi, di don Tano e dei suoi accoliti politicanti travestiti da amministratori pubblici.

Sono trentadue anni, adesso. Non sono trascorsi invano. E nemmeno Peppino è morto invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione da Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso.

In occasione del 32esimo anniversario della morte di Impastato, a Cinisi domenica si svolge un corteo dalla sede di Radio Aut a Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, a partire dalle ore 17. Per maggiori iniziative sulla marcia e sulle altre iniziative: www.peppinoimpastato.com

Moby Prince: ricompare la nebbia.


Dalle prime indiscrezioni sulla richiesta di archiaviazione della ultima inchiesta sulla strage del Moby Prince sembra che addirittura si sia fatto un passo indietro rispetto a quanto affermato nella sentenza del processo di appello e si sia riposizionato l'orologio delle indagini a 10 anno or sono, alla sentenza di primo gado. Adirittura parrebbe che sia tornata di moda la teoria della nebbia come concausa del disastro. Un anno fa avevamo intervistato Carlo Palermo, avvocato di parte civile di alcune delle vittime. Riproponiamo, perchè crediamo siano ainteressanti, alcuni passaggi di quella intervista: 

A Carlo Palmo abbiamo chiesto: in che contesto si compie la tragedia del Moby Prince?

«Tutto avviene la notte del 10 aprile 1991, anche se di certo preparato prima: l’ultima notte prima della chiusura ufficiale della guerra del Golfo, la notte stabilita dal Comando militare degli Stati Uniti per attuare l’illecita cessione di armamenti militari statunitensi a soggetti non identificati presenti con le loro imbarcazioni nella rada del porto di Livorno. Le anomalie e i mancati controlli di quella sera», ci ha detto ancora Palermo, «sono tanto macroscopici da far ipotizzare che alcune "forze" italiane anziché essere solo omissive rispetto a quanto svolto dagli americani, ne fossero in qualche modo partecipi, con conseguente ritardo nei soccorsi. Forse perché non rimanesse traccia di niente: solo e semplicemente... nebbia».

Nebbia sulla quale l'Avvocato Palermo ha riscontrato nuove risultanze mai esaminate prima:

" Sono riuscito a recuperare ben 17 anni dopo il disastro il registro dell'Avvisatore marittimo, che nessuno aveva mai esaminato e tanto meno esposto in atti giudiziari né era mai stato acquisito dall'autorità giudiziaria".

Le annotazioni riportate in questo documento sono assai numerose:c’è quasi tutto gia scritto, anche quello che per anni è rimasto oscurato. La pagina del 10 aprile indica che ci sono ben sette navi militari americane presenti nella rada di Livorno: Cape Flattery, Gallant II, Cape Breton, Efdim Junior, Cape Syros, Cape Farewell e Margareth Likes. Non solo. Indica la loro presenza nei giorni precedenti, e dice che stanno imbarcando e sbarcando anche esplosivo.

Infine, c'è annotata pure la presenza di una nave militare francese, la Port de Lion, operativa la sera della tragedia, ma pure nei giorni successivi, quando si decide che a causa dell’incidente l’armamento non può più essere "movimentato" nel porto di Livorno e si sposta parte del teatro delle operazioni più a Sud, a Talamone: la Port de Lion è in grado di entrare nel canale che porta alla base e così sostituisce le chiatte per numerosi trasbordi.

"Il trasferimento delle operazioni a Talamone - racconta Carlo Palermo - è confermato anche dagli accertamenti della Questura di Livorno per conto del Pm romano Ionta: almeno tre delle navi militarizzate Usa si spostano verso il piccolo porto toscano nei giorni successivi alla tragedia del Moby Prince. La Cape Breton parte carica di materiale bellico, porta 6.056,5 tonnellate di razzi con proiettili esplosivi; la Efdim Junior va ad imbarcare munizioni ed esplosivi; infine, la Gallant 2 risulta ripartita da Livorno per Talamone col suo carico di munizioni che aveva all'arrivo".

Carlo Palermo non conferma e non smentisce ma sarebbe stato ipotizzato che queste navi si siano appoggiate a Talamone allo stesso agente marittimo già utilizzato, qualche anno prima, dalle navi coinvolte nei traffici dello scandalo Iran-contras: la fornitura di armamenti da parte dell’intelligence americana alle milizie parafasciste nicaraguensi, basate in Honduras, utilizzando fondi provenienti dalla vendita clandestina, a prezzi gonfiati, di armamenti di provenienza polacca all'Iran.

Moby Prince, una storia che rischia di finire senza un colpevole


La procura ha depositato la richiesta di archiviazione dell'inchiesta-bis sull'episodio che portò alla morte di 140 persone
Ansa - 07/05/2010 - 09:44
(Per chi vuole approfondire: http://grimaldimobyprince.blogspot.com/

Rischia di calare definitivamente il sipario sul Moby Prince e sui suoi 140 morti. La Procura di Livorno ha infatti depositato la richiesta di archiviazione dell'inchiesta-bis individuando, stando a quanto si apprende in ambienti giudiziari, nell'errore umano la principale causa dell'incidente. Quasi vent'anni dopo quella terribile notte del 10 aprile 1991, dunque, la vicenda giudiziaria del più grave disastro della marineria italiana sta per concludersi di nuovo. Più di 10 di anni fa, infatti, si era chiusa una prima volta e senza colpevoli. I diversi processi celebrati non avevano individuato responsabilità negli imputati: Valentino Rolla, ufficiale di guardia della petroliera Agip Abruzzo con la quale entrò in collisione il Moby Prince, gli ufficiali della capitaneria Lorenzo Checcacci e Angelo Cedro, e il marinaio di guardia nella sala operativa della capitaneria, Gianluigi Spartano.



Né la mancata attivazione dei sistemi di segnalazione antinebbia da parte di Rolla, né le cattiva gestione delle operazioni di soccorso dopo l'incidente, e il successivo rogo che avvolse il traghetto, per i tre militari, furono ritenute colpe dai tribunali. Per quasi vent'anni i familiari delle vittime, anche se divisi tra loro in due comitati distinti e con posizioni molto diverse su quanto accaduto quella notte, hanno continuato a chiedere verità e giustizia. E questa decisione della procura porterà con sé nuove polemiche. Per ora dell'esisto delle indagini si sa poco, a parte il fatto che i magistrati livornesi ritengono l'errore umano una delle cause principali, se non la principale, dell'incidente.



Nei prossimi giorni la procura spiegherà le sue ragioni anche pubblicamente, dopo averlo fatto per oltre cento pagine nella richiesta di archiviazione appena depositata negli uffici del giudice per le indagini preliminari che dovrà decidere se accoglierla o se invece ordinare supplementi investigativi. Quello che però è chiaro fin da subito è che i magistrati (Antonio Giaconi, Massimo Mannucci e Carla Bianco) coordinati da procuratore Francesco De Leo non hanno creduto o comunque non hanno trovato riscontri sulle ipotesi avanzate dall'avvocato Carlo Palermo, per conto dei figli del comandante del traghetto, Angelo e Luchino Chessa, e altri parenti delle vittime del Moby Prince, nell'istanza di riapertura delle indagini presentata nel 2006.



In quasi 600 pagine di memoria difensiva, il legale metteva in fila una serie di dubbi inquietanti e uno scenario tutt'altro che "accidentale": "Quella sera - scriveva Palermo - nel porto di Livorno sarebbero state scaricate armi da navi americane che non sarebbero però arrivate alla loro destinazione naturale, la base di Camp Darby (Pisa). Ci sarebbero state dunque operazioni militari illegali". Non solo, secondo Palermo ci furono anche "soppressione di atti e una sostanziale abdicazione della sovranità territoriale sul porto e sulla rada livornese" concludendo che l'incidente fu determinato da una serie di concause che però accesero "un faro sulle operazioni militari illegali che stavano avvenendo in porto". (ANSA).