sabato 8 maggio 2010

Il golpe di Via Fani svela le sue ombre


Di Gino Gullace Raugei su /www.oggi.it 
Si è sempre creduto che il nodo inestricabile dei mille misteri che hanno caratterizzato una delle vicende più oscure d’Italia fosse nei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro. Invece, la chiave del giallo è nei poco più di 55 secondi che si impiegano per percorrere 400 metri di alcune anonime strade di Roma: chi ha avuto interesse ad eliminare dalla scena il presidente della Democrazia cristiana che con la forza delle sue idee turbava pesantemente i delicati equilibri politico-militari dell’Alleanza atlantica e la logica del mondo diviso in due blocchi, proprio qui lascia la sua firma. E le Brigate rosse? Non furono che uno strumento, più o meno inconsapevole, di una inquietante trama molto più grande di loro? La nostra è stata un’inchiesta lunga, faticosa e difficile. Alla fine, siamo riusciti a ricomporre secondo un rigido ordine logico tutte le tessere del puzzle. Ecco che cosa abbiamo scoperto.

LA MATTINA DELL’AGGUATO

Giovedì, 16 marzo 1978, è una mattina di cielo plumbeo e aria frizzantina: la dolce primavera romana si fa attendere. La Fiat 130 blu ministeriale di Aldo Moro e l’Alfetta bianca di scorta spuntano invece puntuali, alle 9.01, da un largo curvone di Via Trionfale, nel quartiere di Monte Mario. Il presidente della Dc, che abita lì vicino, e i cinque uomini della sua scorta (il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, le guardie di Pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera e il brigadiere Francesco Zizzi) sono diretti alla Camera dei deputati dove quel giorno si vota per la nascita della controversa creatura politica di cui lo statista pugliese è il padre storico: il governo Andreotti IV, un monocolore Dc con l’appoggio esterno - per la prima volta nella storia della Repubblica - del Partito comunista. «Via Trionfale», come si legge sul quotidiano Il Tempo, in un articolo del 17 marzo 1978, «è il percorso più diretto verso il centro dell’Urbe». Eppure, Moro e la sua scorta rallentano all’improvviso e svoltano a sinistra, sulla stretta Via Mario Fani, correndo ignari all’appuntamento con la morte. «Infinite volte, mi sono chiesta come potevano essere le Brigate rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora, in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato da Via Fani», dichiarò la signora Eleonora Chiavarelli, vedova dello statista, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage della scorta, sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, nell’udienza del 1° agosto 1980. Un dubbio atroce che, tra indagini lacunose, reticenti, frammentarie o, addirittura, inesistenti, non ha avuto mai una risposta. Eppure in quel chilometro scarso che separa Via del Forte Trionfale 79 (dove al tempo abitava la famiglia Moro) e l’incrocio di Via Trionfale con Via Fani c’è qualcosa di non trascurabile importanza che proprio non torna. In quei mille passi, come direbbe un giallista, c’è probabilmente la traccia decisiva per identificare i complici di quel gravissimo delitto. E, attraverso di loro, identificare probabilmente il mandante. Tra le quattro o cinque alternative di itinerario possibile, qualcuno insospettabile indirizzò Aldo Moro sul percorso meno conveniente, ma fatale. Senza il concorso di questo qualcuno l’agguato delle Brigate rosse non avrebbe probabilmente mai avuto luogo.

BASTAVA PEDINARLO?

Dal punto di vista della verità ufficiale, cioè giudiziaria, le deposizioni fondamentali per ricostruire le dinamiche del clamoroso agguato brigatista furono rilasciate tra il 13 e il 26 settembre 1978 dai cinque agenti superstiti della scorta di Moro (che il giorno della strage erano di riposo o in licenza) interrogati uno per volta dai giudici istruttori Ferdinando Imposimato e Achille Gallucci. «Ogni mattina il presidente Moro si recava sempre alla messa delle ore 9 nella chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici», dicono, parola più, parola meno, l’appuntato dei carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di Pubblica sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo e gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana. «Il percorso seguito era sempre lo stesso, il più breve e il più veloce: via del Forte Trionfale, via Trionfale, via Fani, via Stresa, via della Camilluccia fino a piazza dei Giuochi delfici». L’agente Pampana, nella sua deposizione, aggiunge un particolare molto preciso: «L’onorevole Moro usciva, costantemente, salvo rare eccezioni, intorno alle ore 9. Era precisissimo nell’orario, nel senso che poteva anticipare o posticipare l’ora di uno o due minuti». Stando così le cose, tutto sembra sufficientemente chiaro: alle Brigate rosse - come racconteranno in seguito i vari Moretti, Morucci, Faranda e compagnia - è bastato pedinare neanche troppo a lungo Moro e la scorta per avere una precisa contezza delle loro abitudini e quindi per scegliere il punto più adatto dove posizionare la trappola mortale.

LA VERSIONE DI ELEONORA

Eppure, il 23 settembre 1978, la signora Eleonora Moro, interrogata dal giudice istruttore Achille Gallucci, smentisce clamorosamente le deposizioni dei primi tre agenti (Gentiluomo, Pallante e Riccioni, ascoltati il 16 settembre). «Non posso affermare», dice la signora Eleonora, «che mio marito sia stato un abitudinario. Per quanto attiene all’orario di uscita del mattino, non è esatto quanto affermato dai superstiti della scorta. Essi, come la Signoria vostra mi precisa, sostengono che l’onorevole Moro era solito uscire di casa verso le ore 9. Invece, particolarmente negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, egli non aveva mai un orario fisso di uscita poiché bastava una telefonata per fargli cambiare il programma della giornata. Era solito andare a messa tutti i giorni, anche nel pomeriggio, a seconda dei suoi impegni. Egli, fra l’altro, cambiava spesso le chiese, frequentando quella di Santa Chiara, a Piazza dei Giuochi delfici, ma anche quella di San Francesco, sulla Via Trionfale, oppure quella del Gesù, in viale Regina Margherita ed altre ancora. «Faccio altresì presente», aggiunge la vedova di Moro, «che mio marito non faceva di solito la stessa strada e ciò per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso veniva deciso al momento da mio marito e dal maresciallo Leonardi, il caposcorta. La sua auto percorreva alle volte Via Cortina d’Ampezzo, alle volte Via Fani, alle volte Via Trionfale». Malgrado gli altri due agenti superstiti della scorta, Pampana e Lamberti, vengano convocati dallo stesso Giudice Gallucci tre giorni dopo la signora Moro, non vi è traccia nei verbali dei loro interrogatori di alcun contraddittorio mirato a far luce su testimonianze tanto divergenti.

“PARTICOLARI” TRASCURATI

A 32 anni di distanza dal fatto ci rechiamo dall’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato con i verbali di quegli interrogatori che lui stesso contribuì a raccogliere. «Non c’è dubbio», dice Imposimato, scorrendo le carte, «che le deposizioni fotocopia degli agenti sembrano concordate. Qualcuno, evidentemente, gli avrà ordinato di dire quelle cose. Perché non ce ne siamo accorti subito? Perché in violazione del codice di procedura penale del tempo, gli atti del rapimento Moro non furono trasmessi all’ufficio del giudice istruttore entro 40 giorni dal fatto, ma ben 64 giorni dopo, esattamente il 19 maggio. A quella data Moro era già stato ucciso e l’obiettivo era assicurare alla giustizia i brigatisti colpevoli. Un particolare come quello degli orari e dei percorsi della scorta è sembrato minore».

PARLA LA FIGLIA

Sempre a proposito degli orari e degli itinerari seguiti da Moro e la sua scorta, ecco ciò che dichiarò sua figlia Agnese ai giudici della corte d’Assise di Roma che stavano processando i brigatisti assassini nell’udienza del 20 luglio 1982: «Vorrei sottolineare che mio padre non faceva sempre gli stessi percorsi, che Via Fani non era che una delle strade che potevano essere percorse la mattina come nel corso della giornata, anche perché è una strada stretta, disagevole, spesso trafficata. I percorsi si cambiavano spesso perché c’erano delle preoccupazioni da parte di mio padre, inerenti al suo ruolo politico, preoccupazione per sé e per i familiari». «Vorrei sapere dalla teste se sa chi decideva il cambio dei percorsi nel trasferimento del padre dall’abitazione nei vari posti dove doveva recarsi», chiede l’avvocato Enzo Ciardulli, dell’Avvocatura di Stato. «Io ho sentito abbastanza frequentemente non delle discussioni in senso polemico, ma delle conversazioni fra Ricci e Leonardi al momento di uscire di casa sul percorso da scegliere. A volte mi è capitato anche di sentir dire: mi hanno detto che lì c’è traffico, passiamo da un’altra parte. I percorsi credo che poi venissero stabiliti anche a seconda del ritardo in cui era mio padre per arrivare a destinazione, cioè anche alla messa della mattina: spesso non ci andava più perché magari era in ritardo, cosa che gli capitava in maniera frequentissima. Quindi, voglio dire che c’era anche questa variabile di quello che poi succedeva realmente la mattina, cioè quale era l’orario effettivo di uscita di casa di mio padre». «Poteva capitare», chiede il presidente della giuria, «che il percorso da fare la mattina veniva stabilito la sera precedente?». «Non credo proprio», dice Agnese. «Mi pare veramente impossibile anche perché mio padre era un tipo veramente ritardatario, quindi, magari, usciva con tre quarti d’ora di ritardo rispetto all’orario previsto e magari avevano deciso di andare prima in un posto eppoi non ci potevano più andare perché l’orario era passato. Sono sicura che i percorsi venivano stabiliti la mattina stessa». «Quindi il percorso di Via Fani la mattina del 16 marzo venne stabilito casualmente quella mattina stessa?», chiede l’avvocato Ciardulli. «Credo proprio di sì», risponde Agnese Moro. «Questa Via Fani era uno dei percorsi che si facevano?», domanda il presidente. «Sì, ma ce n’erano parecchi», precisa Agnese Moro. «Altre volte era passato da Via Fani suo padre?», dice il presidente. «Sì», spiega Agnese Moro, «però non è che il percorso di Via Fani corrispondeva all’andare, poniamo, sempre per fare un esempio concreto, alla Chiesa di Santa Chiara perché per andare in Piazza dei Giuochi delfici passava indifferentemente da lì oppure da via Cortina d’Ampezzo. Questo per rendere l’idea, non è che per andare in un posto abituale c’era sempre quella strada. Anche per andare in un posto abituale ci potevano essere vari percorsi».

CAMBI DI PERCORSO

«Nelle settimane precedenti l’agguato di Via Fani mio padre era preoccupato per il continuo cambio dei percorsi per raggiungere le varie destinazioni di Moro», ci dice oggi Giovanni Ricci, figlio dell’appuntato Domenico Ricci, autista della Fiat 130 dello statista pugliese. «“Devo guidare a velocità elevata perché il presidente è sempre in ritardo”, spiegava papà, “e siccome transitiamo a volte per strade che non conosco, finirò prima o poi per fare un incidente».

LA NOSTRA PROVA COL GPS

A titolo puramente indicativo abbiamo sottoposto gli itinerari del presidente Moro alla prova del Gps o navigatore satellitare, uno strumento di precisione che allora non esisteva e che oggi serve per determinare la strada più breve e veloce che conviene fare per andare in un certo posto. Parcheggiamo dunque la nostra auto davanti al numero 79 di Via del Forte Trionfale, dove abitava lo statista, e chiediamo al Gps di guidarci verso Piazza dei Giuochi delfici. Lo strumento dice di proseguire per Via Cortina d’Ampezzo, svoltare a destra su via Cassia e poi andare diritti fino alla piazza. In totale sono 4 chilometri che percorriamo in 5 minuti e 42 secondi. Torniamo a Via del Forte Trionfale, 79, e raggiungiamo Piazza dei Giuochi delfici passando stavolta per Via Trionfale, Via Mario Fani, Via Stresa, Via della Camilluccia. L’incrocio tra Via del Forte Trionfale e Via Trionfale non è oggi transitabile nella direzione che ci interessa poiché sono intervenuti dei notevoli lavori di modifica della planimetria viaria che allungano il percorso di circa un chilometro. Sottraendo questa distanza e il tempo che impieghiamo a percorrerla dal dato finale si ottiene che passando per quelle strade si arriva a Piazza dei Giuchi delfici dopo 5 chilometri e 500 metri e quasi 9 minuti a causa delle numerose svolte e incroci con stop. A titolo puramente indicativo, come dicevamo, possiamo affermare che il percorso per Piazza dei Giochi delfici passando per Via Fani, oggi, come allora, non è il più breve né il più veloce.

IL DOCUMENTO SCOMPARSO

Per tagliare la testa al toro, come si suol dire, servirebbe un documento inoppugnabile: il diario della sala operativa del Viminale, relativo al giorno 16 marzo 1978 e precedenti, dove venivano annotati tutti i contatti radio con le auto di scorta e quindi tutti gli orari e tutti i percorsi. A quanto dichiara il dottor Guido Zecca, dirigente dell’ispettorato generale (l’ufficio responsabile dei servizi di scorta) presso il Viminale alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, nella seduta del 7 novembre 1980, «tutti i movimenti venivano sempre controllati dalla nostra sala operativa che segnava su un brogliaccio tutti gli spostamenti. Gli agenti di scorta dicevano: siamo partiti, siamo arrivati in questo punto, siamo qui fermi». Peccato però che questo fondamentale documento sembra misteriosamente scomparso: «Lo abbiamo chiesto ripetutamente», ricorda il senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, «ma non ci è stato mai trasmesso».

IL FIORAIO AMBULANTE

Per saperne di più, non resta che tentare di rintracciare alcuni testimoni, peraltro mai prima d’oggi interrogati. Il primo è Antonio Spiriticchio, il famoso fioraio ambulante di via Fani a cui, nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1978, furono squarciate le gomme del furgone per impedirgli di trovarsi, al momento dell’agguato, proprio nel punto cruciale: in prossimità dello stop all’incrocio con Via Stresa. «Quella mattina dovevo recarmi al mercato generale per rifornirmi di fiori e piante», ricorda Spiriticchio, che oggi ha 82 anni, «perciò uscii di casa verso le 6.30. Quando vidi tutt’e quattro le gomme del mio Transit a terra pensai all’atto vandalico di qualche teppista. La mia prima preoccupazione fu quella di andare comunque al lavoro, rimettendo il furgone in condizioni di circolare: nel cassone, infatti, c’erano molti fiori invenduti il giorno precedente che si sarebbero rapidamente deteriorati aggiungendo danno al danno. Perciò mi detti da fare con un amico gommista che venne a sostituirmi nel più breve tempo possibile le quattro ruote. Ero quasi arrivato a Via Fani, quando la radio dette la notizia dell’agguato». Spiriticchio ricorda Aldo Moro in Via Fani come una presenza abbastanza familiare. «Qualche volta passava in auto col solo Leonardi», dice, «qualche volte scendeva addirittura a piedi con la moglie che si fermava a comprare dei fiori». Ricorda, chiediamo, se Moro e la scorta passavano ogni giorno da Via Fani, più o meno alla stessa ora, verso le 9 del mattino? «No, su questo non ci potrei proprio giurare», risponde Spiriticchio. «Passava spesso, ma non sempre. Dopo l’agguato delle Br mi hanno interrogato un mucchio di volte, ma una domanda del genere non me l’hanno mai fatta».

GLI ALTRI TESTIMONI

I signori Ferrando e Santina, che avevano una rivendita di frutta e verdura sul tratto iniziale di Via Fani, confermano i ricordi del signor Spiriticchio. «Il presidente Moro e la sua scorta passavano frequentemente, ma non possiamo mettere la mano sul fuoco che passassero sempre e alla stessa ora», spiegano. «Quando il presidente passava, io ero intento a sistemare la merce in vetrina», racconta Bruno Marocchini, titolare di una gioielleria. «Me lo ricordo ancora, sul sedile posteriore della Fiat 130, intento a sfogliare i giornali. Passava sempre da Via Fani? Diciamo che passava spesso, ma se non passava non è che mi mettevo a piangere!».

IL PARROCO ATTUALE

A questo punto ci rechiamo alla Chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici, dove incontriamo don Giuseppe, uno dei parroci attuali. «Sto qui da appena sei anni e non sono dunque un testimone diretto dei fatti che vi interessano», premette. «Però sono molto legato alla figura di Aldo Moro perché anche io sono pugliese, di Castellaneta». Don Giuseppe ricorda il bailamme che turbò i ritmi parrochiali quando, circa tre anni fa, la chiesa fu invasa dalla troupe cinematografica che girava la fiction di Canale 5 Aldo Moro, il presidente con Michele Placido nei panni dello statista. «I parrocchiani, specie i più anziani, erano un po’ infastiditi e ricordavano che Aldo Moro, in fondo, frequentava abbastanza saltuariamente la nostra chiesa. Comunque, per saperne di più, dovete cercare il parroco di allora, Gianni Todescato».

IL PARROCO DI ALLORA

Don Gianni, attuale rettore della chiesa di Sant’Agnese a Piazza Navona è un anziano parroco vicentino, molto disponibile e cortese. Infatti accetta volentieri di riceverci. «Sono stato parroco di Santa Chiara per quarantuno anni», dice, «e certo non posso dimenticarmi di Aldo Moro. Proprio il 15 marzo, il giorno prima di essere rapito, gli detti io il sacramento della comunione. Quella mattina, certo prima delle 9, orario di inizio della messa, venne il maresciallo Leonardi a chiedermi la cortesia di somministrare in privato l’eucarestia al presidente che, dovendo tenere di lì a breve un importante discorso, non aveva tempo di assistere alla funzione religiosa». Don Gianni ricorda l’assidua presenza di Aldo Moro anche se ammette: «In tutti gli anni che è venuto alla mia chiesa non abbiamo mai stabilito un rapporto particolare. Riservato sono io e riservatissimo era lui». Gli chiediamo se si ricorda come si disponeva la scorta del presidente fuori dalla chiesa. «Me lo ricordo benissimo: due agenti lo accompagnavano dentro e gli altri tre aspettavano con le auto fuori. Parcheggiavano proprio davanti all’ingresso. Alcune volte arrivavano da Via della Camilluccia; altre volte venivano invece da Via Cortina d’Ampezzo». Ne è sicuro, padre? «Assolutamente: alcune volte venivano da sopra, da Via della Camilluccia; altre volte venivano da sotto, dalla parte di Via Cassia su cui sbocca Via Cortina d’Ampezzo. «Io non sono stato mai interrogato dagli inquirenti», dice don Gianni. «Altrimenti gli avrei detto che per circa due anni, tutte le volte che Moro entrava in chiesa, appariva un giovane sconosciuto in fondo al sagrato. Dopo il rapimento del presidente, quel giovane non si fece più vedere. Secondo me, era un brigatista».

Gino Gullace Raugei

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