sabato 8 maggio 2010

LA MAFIA, LO STATO, LA POLITICA E LA TRATTATIVA. Ecco la cronologia esatta (Parte prima)


di Federico Elmetti 
Giovedì 04 Marzo 2010 - www.19luglio1992.com

Giugno 1990

Il capitano del Ros Giuseppe De Donno esegue un mandato d'arresto nei confronti di Vito Ciancimino per irregolarita' nella gestione degli appalti. Viene perquisito il suo villino a Mondello (Palermo). E' in questa occasione che De Donno conosce per la prima volta sia don Vito che il figlio Massimo. Entrambi, padre e figlio, ne apprezzano l'atteggiamento molto gentile e professionale. Fra di loro si instaura un rapporto di fiducia e cordialità, tanto che, da quel momento in poi, Massimo e De Donno, coetanei, si incontreranno spesso, sia al bar che in caserma, e inizieranno a darsi del tu.

Luglio 1990

Dopo meno di un mese, la Suprema Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale annulla la misura di custodia cautelare nei confronti di Vito Ciancimino. Don Vito esce dal carcere.

Prima metà del 1991

Vito Ciancimino si trova nella sua abitazione romana di Via San Sebastianello 9 a pochi passi da Piazza di Spagna: su di lui pende un divieto di soggiorno a Palermo. Don Vito ordina al figlio Massimo di scendere a Palermo, di recarsi a casa di Pino Lipari a San Vito Lo Capo e di farsi consegnare una busta. La cosa è agevolata dal fatto che Massimo è fidanzato con la figlia di Lipari, Rossana. Ad attenderlo ci sono sia Pino Lipari che Bernardo Provenzano. Gli consegnano la busta, chiusa ma non incollata. Massimo la riporta al padre. La aprono e la leggono insieme. Don Vito non è sorpreso: se l'aspettava. La lettera è indirizzata al dottor Marcello Dell'Utri e contiene esplicite minacce all'incolumità dei figli di Berlusconi. Don Vito ha il compito di dare il suo parere sulla missiva e poi di consegnarne una copia ad un certo signor Franco.
E' bene qui aprire una piccola parentesi su questo oscuro personaggio, la cui presenza sarà costante durante le varie fasi della trattativa. Il nome con cui Massimo Ciancimino è solito chiamarlo (l'ha memorizzato così sul cellulare) è Franco. Così glielo ha presentato suo padre. Don Vito invece, nei suoi incontri privati, lo chiama Carlo. Essendo entrambi, molto probabilmente, nomi di fantasia utilizzati per coprire l'identità del personaggio, lo chiameremo d'ora in poi col nome ormai giornalisticamente più diffuso, ovvero Franco. Residente a Roma, all'epoca tra i 45 e i 50 anni, brizzolato, occhiale quadrato, senza barba né baffi, molto alto, con tre-quattro passaporti, il signor Franco è uno degli uomini più potenti all'interno dei Servizi Segreti, in contatto con i piani alti delle istituzioni e in collegamento diretto con Bernardo Provenzano. Gira in Mercedes blu per le vie di Roma. Tanto per dire, questo signor Franco, insieme a don Vito, incontrerà almeno un paio di volte, in via di Villa Massimo e in Via del Tritone a Roma, gli ex Alti Commissari per la lotta alla mafia, il dottor Emanuele De Francesco e il dottor Domenico Sica. La conoscenza tra Franco e la famiglia Ciancimino risale addirittura agli anni '70, ma Massimo continuerà a vederlo fino alla morte del padre nel 2002. Massimo si dice sicuro che il signor Franco sia tuttora in vita.

15 Dicembre 1991

Gaspare Mutolo, mafioso affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, agli arresti nel centro clinico di Pisa, incontra durante un colloquio riservato Giovanni Falcone al quale comunica la sua intenzione di diventare collaboratore di giustizia. Falcone prende atto della scelta di Mutolo ma lo informa che, in qualità di Direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, non potrà interrogarlo di persona ma troverà un valido sostituto al quale affidarlo. Mutolo non sa se iniziare la collaborazione perché è disposto a farlo solo con una persona di assoluta fiducia e per questo aveva deciso di affidarsi a Falcone. Il giudice spiega allora a Mutolo l'importanza del suo lavoro a Roma al ministero e cerca di convincerlo a non perdere l’opportunità della collaborazione. Mutolo si riserva di decidere. Falcone e Mutolo si lasciano con l’impegno di non comunicare a nessuno il contenuto della discussione. Mutolo si mostra subito estremamente preoccupato per una possibile fuga di notizie in ambienti istituzionali. “Purtroppo anche nel suo ufficio ci sono amici dei mafiosi”, dice Mutolo al giudice Falcone facendogli espressamente i nomi di “Mimmo e Bruno”. Falcone capisce che si tratta rispettivamente di Domenico Signorino e Bruno Contrada e promette che, in caso Mutolo decida di collaborare, troverà un collega serio e fidato che possa occuparsi del suo caso.

30 gennaio 1992

La Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli ergastoli comminati alla cupola di Cosa Nostra diventano definitivi.

12 marzo 1992

L'eurodeputato democristiano Salvo Lima, proconsole del primo ministro Giulio Andreotti in Sicilia, viene assassinato a Mondello (Palermo). In macchina con lui c'è anche Nando Liggio, che assiste alla scena dell'esecuzione, una delle più terribili di sempre. Lima ha infatti il tempo di capire esattamente a cosa stia andando incontro: si accorge dell'agguato, scende dalla macchina, tenta di scappare, i sicari lo inseguono per almeno un paio di minuti e poi lo freddano a colpi di pistola. Giovanni Ciancimino, l'altro figlio di don Vito, riferisce che il padre, subito dopo l'omicidio, era molto provato e spaventato. Era convinto infatti che avrebbe fatto la stessa fine di Lima. “Lui diceva sempre: - Chissà se ci rivedremo di nuovo... -” Don Vito non ritiene nemmeno prudente scendere a Palermo per i funerali. Ci manda Massimo a portare le sue condoglianze.

15 marzo 1992

Massimo Ciancimino viene contattato dallo zio Giuseppe Lisotta. Gli riferisce che Nando Liggio chiede un incontro immediato con suo padre. Ha visto in faccia gli assassini di Lima ed ora è terrorizzato, si nasconde e non esce più nemmeno di casa. Massimo torna a Roma e comunica la richiesta al padre.

Terza settimana di marzo 1992

Don Vito, nonostante i timori, decide di scendere a Palermo. Incontra prima Lisotta e poi Provenzano in un appartamento in via Leonardo da Vinci. E' un incontro di fondamentale importanza, “un incontro clou” come lo definirà Massimo. Riina aveva appena mandato a dire a Provenzano di non preoccuparsi delle possibili reazioni dello Stato all'omicidio Lima, perché lui aveva tutto sotto controllo. Anzi, avrebbe dovuto spargere la voce, per dimostrare quale fine poteva fare chi non rispettava i patti. Di fronte a don Vito, Provenzano esterna tutto il suo disappunto: “Riina sta prendendo una piega che non mi piace. Gli hanno riempito la testa di minchiate. Qualcuno gli ha promesso, garantito qualcosa di grosso, veramente grosso. Ha intenzioni brutte. Anch'io, siccome prevedo che ci saranno gravi conseguenze, ho fatto rientrare la mia famiglia in Italia, perché prevedo che ci saranno reazioni da parte dello Stato”. Sia Provenzano che don Vito concordano sul punto: notano una vena di follia nell'atteggiamento di Riina. Provenzano, molto lucidamente, capisce che di lì a poco la situazione sarebbe precipitata. Sa che Riina non ha intenzione di fermarsi nel suo attacco allo Stato e il suo intento è quello di “tagliare certi rami secchi”, ovvero rompere quei legami politici stantii da cui ormai Cosa Nostra non può più trarre alcun giovamento. Per la prima volta, Provenzano mette in guardia don Vito dall'escalation criminale che frulla nella mente malata di Riina: l'omicidio Lima rappresenta la chiusura di vecchi rapporti e l'inizio di nuovi. Ma soprattutto: Riina ha in mano una lunga lista di nomi di politici e magistrati da far fuori. Don Vito rimane profondamente colpito dalle parole di Provenzano. Mai aveva pensato che Cosa Nostra potesse addentrarsi in una "strategia" a lungo termine. La stessa parola "strategia" era estranea al vocabolario mafioso. Cosa Nostra aveva sempre agito secondo una logica impulsiva, di azione-reazione. Evidentemente qualcosa era cambiato. Questa non era piu', solamente, mafia.
E cosa intende allora Provenzano quando dice: “Qualcuno gli ha promesso qualcosa di grosso”? Don Vito ne parlerà personalmente a Massimo nel 2000. Secondo lui, Riina, ai tempi dell'omicidio Lima, già aveva trovato nuovi referenti che l'avevano assecondato nel suo folle piano e che in qualche modo l'avevano utilizzato per dare la spallata definitiva alla già traballante Prima Repubblica. Il “grosso progetto”, secondo don Vito, era infatti quello di porre le condizioni per far nascere un grande movimento elettorale di centro, che prendesse il posto di quello che erano i partiti di riferimento di allora, travolti dallo scandalo di Tangentopoli. La mafia doveva smettere di dipendere dalla politica. Doveva iniziare a fare politica. “Oggi come oggi – racconterà don Vito pochi mesi prima di morire - mi rendo conto che infine capisco quale era il piatto della bilancia: la nascita di questa grande, nuova formazione di Centro che oggi ha un peso e che da quegli anni governa costantemente le sorti del paese”.

24 aprile 1992

Crolla il governo. Il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, travolto dalle polemiche seguite all'omicidio Lima, rassegna le sue dimissioni al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

26 aprile 1992

Due giorni dopo, lo stesso Cossiga si rivolge alla nazione con un discorso televisivo a reti unificate e si dimette pubblicamente. Lo Stato è in ginocchio.

18 maggio 1992

Giovanni Falcone, Vito Ciancimino e il figlio Massimo si ritrovano casualmente sullo stesso aereo da Palermo a Roma. Don Vito è una vecchia conoscenza di Falcone. L'aveva fatto arrestare nel lontano '84. Scherzo del destino. Non si rivedranno mai più.

23 maggio 1992

Falcone torna da Roma e ad attenderlo allo svincolo di Capaci c'è una carica di tritolo che uccide lui, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani.

25 maggio 1992

Dopo innumerevoli fumate nere viene eletto il nuovo capo dello stato. Contro tutti i pronostici che vedevano Giulio Andreotti favorito, viene scelto a sorpresa Oscar Luigi Scalfaro.

28 maggio 1992

In occasione della presentazione di un libro, il ministro Vincenzo Scotti candida pubblicamente Paolo Borsellino al vertice della Superprocura Antimafia. Borsellino non la prende bene. Esporlo in quel modo equivale a metterlo al centro del mirino mafioso. Infatti, uno dei possibili moventi per la strage di Capaci era proprio l'aver impedito la nomina di Falcone a Superprocuratore Nazionale Antimafia. Calogero Pulci, collaboratore di giustizia, racconterà che la sera di quello stesso giorno si trovava a tavola con altri mafiosi quando il TG3 trasmise le immagini della conferenza stampa di Scotti e Martelli. All’udire le loro parole, Piddu Madonia esclama: “E murì Bursellinu”. Pochi giorni dopo, Borsellino commenterà l’uscita di Scotti in un colloquio con il tenente Carmelo Canale: “Hanno messo l’osso davanti ai cani”.

30 maggio 1992

Massimo Ciancimino e il capitano del Ros Giuseppe De Donno si incontrano casualmente nell'area del check-in dell'aeroporto di Fiumicino. Entrambi devono prendere lo stesso volo Roma-Palermo. De Donno chiede alla hostess di trovare un posto vicino per i due. Viaggeranno accanto per tutta la durata del volo. Parlando della strage di Capaci, Massimo rivela a De Donno che il padre è rimasto molto scosso e gli ha riferito: “Questa non è più mafia. Questo è terrorismo!”. De Donno chiede a Massimo se suo padre sarebbe disposto a fare una chiacchierata con lui e con il suo superiore Mario Mori. Non in veste ufficiale ovviamente, ma in veste confidenziale. Gli lascia il suo numero di cellulare perché lo ricontatti al più presto.

1 giugno 1992

Massimo torna a Roma dopo il weekend passato a Palermo e riferisce al padre il contenuto del colloquio con il capitano De Donno. Prevede una reazione negativa da parte del padre, che era sempre stato allergico agli uomini in divisa. Invece, in modo quasi insolito, don Vito non appare meravigliato della proposta di De Donno e anzi dice di voler prendersi un paio di giorni per pensarci su con calma.

Prima settimana di giugno 1992

Provenzano passa a trovare don Vito nella sua abitazione romana. L'incontro era già stato programmato da tempo, ma il momento è propizio per parlare della trattativa. Don Vito infatti chiede a Provenzano consigli su come muoversi e vuole da lui un'autorizzazione ufficiale a parlare con i Carabinieri. Il boss dà il via libera a don Vito a trattare. Provenzano infatti non ha digerito le morti di Salvo Lima e Giovanni Falcone. Si è convinto ormai che Riina sia un pazzo da fermare a tutti i costi o porterà alla dissoluzione di Cosa Nostra in breve tempo. Nonostante le diffidenze verso l'Arma, considera la trattativa come l'unica strada percorribile: “Va bene, facciamo un tentativo, prova a trattare, prova a proporti da mediatore tra Riina, Cinà e i Carabinieri e vediamo cosa succede”. Provenzano da quel momento in poi seguirà l'evolversi della trattativa dall'esterno e verrà costantemente informato da don Vito dell'evolversi degli eventi.
Appena congedato Provenzano, don Vito, nella stessa giornata, manda a chiamare anche il signor Franco. Stessi discorsi, stesse autorizzazioni richieste. Anche Franco è d'accordo: sarà lui personalmente a gestire la trattativa, ma ad un livello più alto, facendo da anello di raccordo tra istituzioni e Cosa Nostra. Una sorta di garante esterno che però si terrà rigorosamente fuori dalla melma delle richieste e contro-richieste. Per quello ci sono i Carabinieri, che verranno mandati avanti a compiere il lavoro sporco.
Ottenuto il via libera, don Vito ordina a Massimo di contattare il capitano De Donno per stabilire immediatamente un appuntamento. Il giorno successivo, Massimo e De Donno si incontrano a Roma in zona Parioli. Parlottano. De Donno gli dice che lo richiamerà il giorno dopo. E così fa: il capitano del Ros spiega a Massimo che la loro idea è quella di costruire "un canale preferenziale e privilegiato” per poter interloquire con i vertici di Cosa Nostra tramite una persona stimata come suo padre. La proposta messa sul piatto dai Carabinieri è la resa totale e incondizionata di Cosa Nostra e l'auto-consegna dei superlatitanti. In cambio, lo Stato avrebbe assicurato agevolazioni alle famiglie dei mafiosi (mogli e figli), avrebbe avuto un occhio di riguardo per i loro patrimoni e lo stesso don Vito ne avrebbe tratto vantaggi personali in termini di agevolazioni processuali. Massimo è dubbioso, vuole garanzie, teme per la sua vita. Se viene fuori solo una parola sul fatto che sta facendo da tramite tra i Carabinieri e Vito Ciancimino per la cattura dei superlatitanti, è virtualmente un uomo morto. De Donno lo tranquillizza, gli assicura che nessuna notizia su questa trattativa sarebbe mai venuta fuori. Né ora né mai. Gli consiglia di prendere minime precauzioni e di viaggiare in areo in incognito con il nome “Cianci”. Alla fine Massimo si convince e organizza l'incontro con il padre a Roma in via San Sebastianello 9. La trattativa è ufficialmente avviata.

8 giugno 1992

Il Consiglio dei Ministri approva il decreto antimafia Scotti-Martelli con cui si introduce nell'ordinamento penitenziario l'articolo 41bis, il regime di carcere duro riservato ai detenuti per reati di mafia.
Provenzano fa pervenire a don Vito un pizzino in cui si parla dei suoi problemi di salute e soprattutto della trattativa in corso con i Carabinieri: “Carissimo ingegnere, ho saputo che ha fatto avere le mie analisi al professore. Se ritiene che ci posso andare a trovarlo, me lo faccia sapere e anche come. Se lei pensa che parlare con questa gente ci porti qualcosa di buono, a lei non manca. M. mi ha detto che potremmo vederci il 16 o il 17. Sarebbe più prudente il mercoledì. Mi faccia sapere per tempo”. “M.” è ovviamente Massimo Ciancimino. Provenzano si riferisce qui ad una serie di analisi mediche che aveva fatto e che ora, su consiglio dello stesso don Vito, vuol sottoporre al professor Pagliaro, considerato un luminare di altissimo livello. Ma il riferimento alla trattativa appena avviata è evidente: “questa gente” si riferisce ovviamente ai Carabinieri. Il 16 e il 17 sono date di giugno 1992. Provenzano dice che sarebbe più prudente che l'incontro avvenga mercoledì 17. Don Vito, nonostante la sua nota scaramanzia, accetta di incontrare Provenzano quel giorno, perché al mercoledì, in zona, c'è sempre un mercato rionale molto affollato che permette di passare inosservati e di confondersi tra la gente. Inoltre, poco distante da lì vive suo figlio Giovanni, cosa che gli fornisce un alibi perfetto nella remota ipotesi di controlli da parte delle forze dell'ordine.
Questo pizzino è di fondamentale importanza perché dà un'indicazione temporale stringente sull'inizio della trattativa. E che siamo agli inizi lo testimonia la frase prudente di Provenzano, ancora fiducioso nel possibile buon esito dei colloqui con i Carabienieri: “Se lei pensa che parlare con questa gente ci porti qualcosa di buono...” Ma soprattutto, in quell'anno, nel 1992, ci fu un solo mercoledì 17. E cadde appunto in giugno, ben prima della strage di Via D'Amelio. Dalle date, non si può scappare.

Seconda settimana di giugno

E arriva il giorno fatidico del primo incontro. Verso mezzogiorno Massimo aspetta il capitano De Donno in strada, all'angolo con piazza di Spagna. Appena arriva, lo accompagna su in casa dal padre. L'incontro dura circa un'ora e mezza. De Donno ribadisce la richiesta dei Carabinieri: resa incondizionata dei super-latitanti in cambio di agevolazione per le loro famiglie. Don Vito fa capire immediatamente che, con queste premesse, non e' possibile andare avanti. E' inimmaginabile che egli possa andare da Riina e Provenzano a proporre una cosa simile. Sarebbe pericoloso per la sua stessa incolumita'. Rimangono dunque d'accordo che don Vito si sarebbe attivato per aprire un canale di contatto con i vertici di Cosa Nostra per riuscire a capire quali fossero le loro richieste in cambio della cessazione della strategia stragista. Prima di andarsene, De Donno riferisce a Massimo del buon esito della chiacchierata e gli confida che sarebbe tornato sicuramente di lì a poco. Anche don Vito è soddisfatto dell'incontro. Ha capito che ci sono effettivamente dei margini per trattare: De Donno ha promesso che tornerà presto con il suo superiore Mario Mori. Ora don Vito è tutta un'altra persona. Le paure che gli tormentavano il sonno subito dopo l'omicidio Lima sono un lontano ricordo. Adesso, si sente di nuovo potente.
Il figlio Giovanni racconta infatti che, dopo averlo incontrato una ventina di giorni dopo Capaci, la paura che il padre aveva dimostrato dopo l'omicidio Lima era miracolosamente svanita. Le date coincidono perfettamente. Don Vito è ora sicuro di sé, “ringalluzzito”. Spiega Giovanni: “Quella volta mio padre fu particolarmente affabile, gentile. (…) E poi mi disse questa cosa, parlando della strage di Capaci. Mi disse: - Questa mattanza deve finire - . Ma così... ma lo uscì così questo discorso... d'amblèe... guardandomi negli occhi... - Questa mattanza deve finire. Sono stato contattato da importanti personaggi altolocati - mi disse - (...) Sono stato incaricato di trattare con l'altra sponda. Sarà un bene per tutti. - Usò il termine “altra sponda”. Io non sapevo a cosa lui si riferiva perché lui in mia presenza raramente, forse quasi mai, pronunziò la parola mafia. Io devo dire che rimasi scioccato, basito...”

Terza settimana di giugno 1992

E infatti dopo qualche giorno arriva anche il colonnello del Ros Mario Mori, in abiti civili. Insieme a lui, il capitano De Donno. Massimo è lì ad attenderli, come al solito, sotto casa e li accompagna di sopra dal padre, in camera da letto. L'incontro dura un paio d'ore. Mori e De Donno spiegano a don Vito di essere mandati per conto del generale Antonio Subranni. Don Vito però ha grosse perplessità. Non ritiene che Subranni né Mori o De Donno possano avere il potere di garantirgli agevolazioni processuali. Paradossalmente, è convinto di avere più chances lui con il procuratore capo a Palermo Pietro Giammanco (che era stato in diretto contatto con Salvo Lima e che, secondo don Vito, aveva contribuito a insabbiare l'inchiesta mafia-appalti del Ros) rispetto agli stessi Carabinieri. “Questi non riescono a mandare avanti le loro di inchieste! Come pensano di aggiustare le mie?” Inoltre, don Vito ha molti dubbi, soprattutto sull'opportunità di trattare con un personaggio imprevedibile e irrazionale come Totò Riina. La chiacchierata con Mori è comunque proficua e getta le basi per i successivi incontri.
Don Vito però, prima di proseguire nella trattativa, vuole avere garanzie a più alto livello. Per questo contatta l'unica persona in grado di fornirgliele, ovvero il famigerato signor Franco. Franco infatti lo tranquillizza e gli assicura che, dietro ai Carabinieri, le istituzioni sono al corrente della trattativa. In particolare gli fa due nomi: il ministro della Difesa Virginio Rognoni e il senatore democristiano Nicola Mancino. Don Vito in realtà non pare molto entusiasta. Vorrebbe avere in mano qualcosa di ancora più grosso. Il suo sogno sarebbe che la trattativa venisse portata avanti direttamente da Luciano Violante, che don Vito considera l'uomo politicamente più potente in quel periodo. Ha il timore infatti che sia Rognoni che Mancino possano cadere da un momento all'altro nella rete di Mani Pulite: “Se Di Pietro non lo fermano...”
In ogni caso, don Vito si fida delle parole del signor Franco, che rappresentano la condicio sine qua non per proseguire nei colloqui con i Carabinieri. Non per niente, infatti, don Vito è solito chiamare Franco “il collettore”, ovvero il trait-d'union, l'anello di congiunzione tra il prefetto Domenico Sica e il dottor Emanuele De Francesco, l'ex Alto Commisario per la lotta alla mafia, con il quale Franco si incontrerà più volte a cavallo tra le stragi.

17 giugno 1992

Provenzano e don Vito, come concordato tramite pizzino, si incontrano in un istituto parabancario in piazza Unità d'Italia a Palermo. Subito dopo, don Vito manda Massimo da Pino Lipari per richiedere un contatto ufficiale con Riina. Lipari però è appena stato arrestato nell'ambito dell'inchiesta mafia-appalti e Massimo viene ricevuto dalla moglie. Le chiede di poter aprire un canale preferenziale con Riina. La moglie di Lipari gli organizza un incontro con il dottor Antonino Cinà, l'emissario in pectore di Totò U' Curtu.

21 giugno 1992

Massimo incontra il dottor Cinà e lo mette al corrente delle richieste dei Carabinieri. Riina viene subito informato della cosa ed è euforico: “Si sono fatti sotto!” Si mette immediatamente a scrivere un papello di dodici contro-richieste e lo consegna, redatto a penna in stampatello, a Cina'. E' scritto in modo molto preciso e ordinato, senza grossi errori di grammatica. E' quindi verosimile che sia stato scritto da qualcuno molto vicino a Riina, che “per quanto si sforzasse, non sapeva mettere insieme un soggetto e un predicato”.

Quarta settimana di giugno 1992

Dopo la missione compiuta a Palermo, Massimo e il padre tornano a Roma. E' in quei giorni che avviene il secondo incontro tra don Vito e Mori. E' presente, come al solito, anche De Donno. Si parla verosimilmente del canale ben avviato con Totò Riina, per tramite del dottor Cinà.

23 giugno 1992

Liliana Ferraro, l'allora capo degli affari penali di via Arenula e stretta collaboratrice di Giovanni Falcone, durante la messa del trigesimo anniversario della morte del giudice a Roma, viene avvicinata dal capitano De Donno. Le riferisce dei contatti presi con Vito Ciancimino tramite suo figlio Massimo. La Ferraro, lì per lì, invita De Donno a riferire quelle circostanze direttamente al giudice Paolo Borsellino. Contatta immediatamente anche il ministro della Giustizia Claudio Martelli e gli riferisce l'accaduto. Poi, secondo il racconto dello stesso Martelli, la Ferraro, il giorno stesso, chiama anche Borsellino per metterlo al corrente della situazione.

24 giugno 1992

Don Vito torna a Palermo. Nella sua abitazione posizionata sulla prima curva del monte Pellegrino, incontra di nuovo Bernardo Provenzano. Parlano della trattativa in corso con i Carabinieri. Provenzano dimostra nuovamente perplessità sull'operato di Riina. Non riesce proprio a comprendere perché abbia deciso di intraprendere la strada dell'uccisione di Lima, paradossalmente proprio nel momento in cui Cosa Nostra poteva controllare la procura di Palermo grazie a Pietro Giammanco. E poi, Lima era il loro punto di riferimento a livello istituzionale. Nemmeno Provenzano riesce a trovare un filo logico a questa strategia di Riina.

25 giugno 1992

Gianpaolo Pansa incontra Vito Ciancimino nella casa romana di quest'ultimo. Don Vito comunica a Pansa di aver iniziato a scrivere un libro con le sue memorie: “Quando hanno ucciso Falcone, volevo interromperlo. Ma poi ho visto alla televisione il dottore Borsellino che, in una chiesa di Palermo, diceva: chi ha criticato Falcone, oggi non ha più diritto di parola. Allora mi sono infuriato. Io non avrei più il diritto di parola? Così ho deciso di continuare.” Don Vito durante il dialogo con Pansa parla degli omicidi di Salvo Lima e Giovanni Falcone e cerca di allontanare le responsabilità da Cosa Nostra: “Chi ha ucciso l'uno e l'altro si è opposto in qualche modo al progetto dei due padroni d'Italia (Giulio Andreotti e Bettino Craxi, n.d.a.). Quei due delitti possono essere stati fatti entrambi dalla mafia. Ma io non credo che sia stata la mafia ad uccidere Lima e Falcone.” Ciancimino passa poi a diffamare Giovanni Falcone: “Il dottore Falcone era soprattutto un uomo di potere. Intelligentissimo, furbissimo, sapeva tutto. E arrivava là dove nessuno sapeva arrivare. Era un giudice che voleva comandare. Se fosse stato soltanto un magistrato, non si sarebbe fermato a me ed ai cugini Salvo, gli esattori. Sarebbe andato avanti. Invece, quando ha visto che la DC faceva quadrato attorno a Rosario Nicoletti, il segretario regionale, che dopo di noi era il suo obiettivo, allora lui si è fermato. Il dottor Di Pietro, che è solo un magistrato, mica si ferma, no? Falcone voleva il potere. E s'era trasferito a Roma per conquistarlo. Se fosse riuscito a realizzare la superprocura, sarebbe stato anche lui un padrone d'Italia, perché diventava il capo vero di tutti i giudici, più importante del ministro della giustizia. I ministri passano, ma il superprocuratore resta in carica per quattro anni, quattro anni! E può essere riconfermato per altri quattro. Adesso la superprocura non la faranno più. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone è morto.” Quando Giampaolo Pansa chiede: “Ci saranno altri delitti dopo Lima e Falcone?”, Ciancimino risponde: “E chi può dirlo? Certo ai due padroni d'Italia gli hanno tagliato le dita, però...”
Mori e De Donno incontrano Paolo Borsellino, in gran segreto, nella caserma di Carini. Ufficialmente, secondo quanto dichiarato più volte dagli stessi Mori e De Donno, si parla del dossier mafia-appalti che Borsellino sarebbe intenzionato a riprendere in mano. Spiega Mori: "In quei giorni ebbi ripetuti contatti telefonici col dottor Borsellino, che conoscevo da tempo, sinche' il magistrato chiamo' dicendo che mi voleva parlare riservatamente insieme al capitano De Donno. Decidemmo di vederci a Palermo il 25 giugno 1992 negli uffici del Ros perche' il dottor Borsellino, testuale, non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell'incontro. Il magistrato, parlando preliminarmente solo con me, disse che riteneva fondamentale riprendere l'inchiesta mafia-appalti, che rappresentava un salto di qualita' investigativo in quanto strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa Nostra e degli ambienti esterni con cui essa si relazionava".
Si parla anche della trattativa in corso con Vito Ciancimino?
La sera stessa, Borsellino partecipa ad un incontro pubblico (l'ultimo della sua vita) organizzato da Micromega. Nella sala stracolma di gente della biblioteca civica di Palermo, con voce lenta, quasi sofferente, dirà: “In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.”
Queste cose che io so. Sono parole pesanti che, rilette alla luce dei fatti sopra esposti, assumono un significato tremendamente illuminante. Cosa aveva capito Borsellino? Di cosa si era ormai convinto il giudice?

28 giugno 1992

Si insedia il nuovo governo Amato. Alla Difesa, Salvo Andò (PSI) subentra a Virginio Rognoni (DC). Vincenzo Scotti (DC), ex-Interni, viene spostato momentaneamente agli Esteri. Gli subentra Nicola Mancino (DC), colui che era stato indicato da Franco come la persona che sapeva della trattativa insieme al ministro Rognoni. Don Vito ne è certo: percepisce in questa scelta di sostituire in tutta fretta Scotti con Mancino un chiaro segnale di conferma di quanto garantitogli dal signor Franco.
Nelle stesse ore, Paolo Borsellino si trova all’aeroporto di Fiumicino, in ritorno da una conferenza tenutasi a Bari ed è in attesa del volo per Palermo insieme alla moglie Agnese. Insieme a loro viaggia Liliana Ferraro. Hanno parlato della trattativa in corso? Nella saletta vip dell'aeroporto, Borsellino viene avvicinato dal ministro Salvo Andò che gli comunica: “E' arrivata una lettera bruttissima di minacce contro di lei, di morte, oltre che un rapporto del Ros dei Carabinieri. E c'è anche una minaccia per me.” Borsellino cade dalle nuvole, si infuria, il suo capo Giammanco l'ha tenuto all'oscuro di tutto. La moglie Agnese, nella deposizione del 23 marzo 1995 a Caltanissetta, confermerà sia l'incontro tra il marito e Andò che la presenza della stessa Liliana Ferraro all'aeroporto.
Sempre nelle stesse ore, il dottor Cinà telefona a Massimo Ciancimino e gli confida che ci sono importanti sviluppi. Si devono vedere al più presto. Massimo è costretto ad annullare all'ultimo momento una vacanza a Panarea già organizzata da tempo.

29 giugno 1992

Come da accordo preso, Cinà incontra Massimo al Bar Caflisch di Mondello e gli consegna il papello scritto da Riina, in busta chiusa, da consegnare immediatamente al padre.

30 giugno 1992

Massimo rimane ancora per qualche giorno a Palermo. Ha un'altra incombenza da sbrigare. Prende in consegna da un parente di Pino Lipari un altro pizzino di Provenzano indirizzato al padre. Il pizzino fa esplicito riferimento all'incontro tra i due del 24 giugno e alla consegna del papello avvenuta il giorno prima: “Carissimo ingegnere, ho ricevuto la notizia che ha ritirato la ricetta dal caro dottore. Credo che è il momento che tutti facciamo uno sforzo. Come già ci eravamo parlati al nostro ultimo incontro, il nostro amico è molto pressato. Speriamo che la risposta ci arrivi per tempo. Se ci fosse il tempo per parlarne noi due insieme. Io so che è buona usanza in lei andare al Cimitero per il compleanno del padre suo. Si ricorda? Me ne parlò lei. Potremmo vederci per rivolgere insieme una preghiera a Dio o come l’altra volta, per comodità sua, da nostro amico [OMISSIS]. Bisogna saperlo, perché a noi ci vuole tempo per organizzarci”.
Il contenuto criptato del messaggio è fin troppo chiaro: “la ricetta” si riferisce al papello, “il caro dottore” è il dottor Cinà e “il nostro amico” è Totò Riina. Tutto torna. La frase è pesantissima. Secondo Provenzano c'è qualcuno che “pressa” Riina affinché porti avanti la sua strategia folle di attacco frontale allo Stato. Chi sta pressando Riina? Chi gli sta riempiendo la testa di minchiate? Provenzano è in ansia: “Speriamo che la risposta ci arrivi per tempo”. Vuole capire se da parte dei Carabinieri c'è spazio per trattare sulla base del papello presentato da Riina. Spera in una loro risposta prima che sia troppo tardi, prima che Riina vada avanti con altre stragi. Spinge per un nuovo incontro con don Vito. Gli dà un luogo e una data ben precisi: nel cimitero dei Cappuccini, il giorno del compleanno del padre. Che cade il 12 luglio. Le date coincidono perfettamente. E' il secondo pizzino che conferma in modo inequivocabile come la trattativa sia iniziata ben prima della strage di Via D'Amelio. E dalle date, non si può scappare.

1 luglio 1992

Massimo torna a Roma e consegna al padre il papello. Don Vito lo apre in camera da letto con la solita precauzione dei guanti per non rischiare di lasciare impronte digitali. Lo legge e dà disposizione al figlio di contattare immediatamente sia il signor Franco che il capitano De Donno per avere degli appuntamenti separati.
Nelle stesse ore, Borsellino sta interrogando a Roma il pentito Gaspare Mutolo. L'interrogatorio viene interrotto da una chiamata del ministro dell'Interno Nicola Mancino. Borsellino si reca al Viminale. Secondo quanto riferirà Mutolo, nell'ufficio del ministro, Borsellino si troverà di fronte Bruno Contrada e Vincenzo Parisi. Si parla della trattativa in corso con Vito Ciancimino? Mancino nega tutto e dice che a quel tempo non sapeva nemmeno che faccia avesse Borsellino.

Prima settimana di luglio 1992

Don Vito convoca il signor Franco a casa sua e gli consegna il papello ricevuto da Riina. Vuole avere una sua opinione in merito. Non solo. Don Vito rivela a Franco che, per tutelarsi, d'ora in poi vorrebbe registrare le sue conversazioni con Mori e De Donno. Avrebbe messo un registratore nella borsettina gialla che porta sempre con sé e il gioco è fatto. Franco glielo sconsiglia vivamente: “Non facciamo cazzate”. Don Vito invece lo farà davvero e registrerà alcuni successivi incontri con Mori e De Donno grazie al suo mini-registratore SONY. Registratore che rimarrà nella borsettina gialla anche dopo la sua morte. Un mafioso che registrava i Carabinieri. Cose da fantascienza. Massimo ritroverà, tra tutta la documentazione conservata dal padre, anche cinque audiocassette SONY con l'indicazione “INCONTRI MORI-DE DONNO”. Queste cassette sono ora nelle mani dei magistrati di Palermo. Franco prende in consegna il papello e probabilmente lo mostra a chi di dovere. Il giorno seguente, Franco ritorna, come al solito in Mercedes blu con tanto di autista. Restituisce il papello a don Vito, il quale si lascia andare ad un commento poco edificante su Riina: “La solita testa di minchia!”. Esterna il suo disappunto in modo plateale di fronte ad entrambi i figli, Massimo e Giovanni. Le richieste di Riina sono oggettivamente irricevibili. Quella di Riina sembra più che altro una provocazione, solo un modo per alzare il prezzo della posta in gioco. Uno dei punti del papello è la possibilità per i mafiosi della “dissociazione” da Cosa Nostra”, ossia un pentimento ideologico ma non sostanziale, così come era avvenuto con le Brigate Rosse. Proprio in quei giorni escono sui giornali delle interviste al ministro Martelli che parla di “dissociazione” per i mafiosi, criticando fortemente questa possibilità.
Fifetto Cannella da' ordine a Gaspare Saptuzza, killer spietato e uomo fidato dei fratelli Graviano di Brancaccio, di rubare un'auto. Toto' U' Curtu ha in programma un altro "colpetto" da assestare all'agonizzante Prima Repubblica..

10 luglio 1992

A Palermo viene denunciato il furto di una FIAT 126.

12 luglio 1992

Dopo la visita al Cimitero dei Cappuccini alle ore 14:00 per il compleanno del padre, come concordato tramite pizzino don Vito incontra Provenzano nei pressi di Via Pacinotti, all'interno del negozio Mazzara. Chiede a Provenzano di fare un sforzo di mediazione e di convincere Riina ad ammorbidire le richieste impresentabili del papello. I due stabiliscono di incontrarsi di nuovo il 23 luglio.

13 luglio 1992

Il giorno seguente, don Vito torna a Roma insieme con Massimo. Dà subito disposizione al figlio di contattare il capitano De Donno. Si organizza un altro incontro. E' il terzo in ordine cronologico con il colonnello Mori (il quarto con De Donno). Don Vito mostra loro il papello redatto da Riina. I Carabinieri ritengono le richieste inaccettabili. La trattativa si interrompe bruscamente.

14 luglio 1992

Provenzano viene immediatamente informato da don Vito dell'interruzione della trattativa. Inizia un lavorio frenetico per tentare di riallacciare i contatti con i Carabinieri. Provenzano è convinto che si possa ancora fare uno sforzo per venire incontro alle richieste del Ros. Tenta di convincere don Vito a non desistere nella trattativa.

17 luglio 1992

In seguito all'insistenza di Provenzano, don Vito decide di mettere mano al papello. L'idea è quella di riscriverne una versione più ammorbidita: una serie di contro-richieste indirizzate espressamente a Nicola Mancino, Virginio Rognoni e al Guardasigilli Claudio Martelli. E' l'ultimo tentativo di far ragionare Riina. Don Vito infatti cancella alcune richieste del papello originale (come per esempio l’abolizione del 41bis e delle misure di prevenzione) e ne aggiunge altre (come l'idea di portare il maxiprocesso dinanzi alla corte di Strasburgo). Aggiunge anche degli appunti, intesi più come programmi per il futuro che vere e proprie richieste da presentare allo Stato, come la costituzione di un “Partito del Sud” e la riforma della Giustizia all'americana. E' questa la versione del papello, riveduta e corretta, consegnata da Massimo Ciancimino ai magistrati di Palermo e che uscirà sui giornali nel mese di ottobre 2009.

19 luglio 1992

Alle 16:58 una Fiat 126 carica di Semtex esplode in Via D'Amelio a Palermo. Muoiono inceneriti il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Antonio Vullo, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Walter Cosina. Don Vito, appena saputa la notizia, chiama al telefono il figlio Massimo. Gli dice di venire immediatamente perché è successo qualcosa di grosso. Massimo lo raggiunge e insieme guardano in televisione i primi filmati girati subito dopo la strage. Don Vito è traumatizzato, indignato. Si sente addirittura un po' colpevole. Dice: “Abbiamo messo benzina sul fuoco. Con questa gente (Riina, n.d.a.) non si doveva trattare; il peggiore errore che è stato fatto in tutta 'sta storia è stato chiedere a te (Massimo, n.d.a.) e poi a me di aprire una trattativa in un momento in cui la mafia dimostrava il più alto potere a livello bellico”. Le sue intuizioni erano giuste. Era stato un errore imperdonabile dar credito a Riina e permettergli di trattare con lo Stato. E' inutile farlo ragionare. Quello, “nella sua cretinaggine”, ora si è messo in testa di essere invincibile. Don Vito ne è certo: Borsellino è la vittima innocente sacrificata sull'altare della trattativa. E per questo non riesce a darsi pace.

20 luglio 1992

Don Vito fa pervenire a Provenzano, tramite Massimo, una missiva in cui annulla l'incontro già stabilito per il 23 luglio, in cui Provenzano avrebbe dovuto riferire a don Vito l'esito della mediazione con Riina. Evidentemente, la mediazione non era andata a buon fine.

21 luglio 1992

Provenzano risponde alla missiva di don Vito: “Carissimo ingegnere, M. mi ha detto che visti i fatti accaduti non è prudente incontrarci giovedì 23 come ci eravamo detto l'ultima volta che ci siamo visti. Ho parlato con amici comuni e mi hanno detto che M. quando viene a Palermo non è solo. So che il ragazzo si guarda. Secondo me c'è qualcosa che non funziona e se lei continua a parlarci con questa gente mi faccia sapere. Che il buon Dio ci protegga”.
Provenzano è dunque venuto a sapere che Massimo viene pedinato mentre si sposta a Palermo. Alla luce di quanto avvenuto con la strage di Via D'Amelio, Provenzano nutre sospetti sui Carabinieri e mostra grande diffidenza: “C'è qualcosa che non funziona...” Qualcosa, evidentemente, è andato storto. Inoltre, altro particolare importantissimo, in quell'anno, nel 1992, non ci furono altri giovedì 23 che caddero dopo la strage di Via D'Amelio. E' il terzo pizzino che dimostra in modo inequivocabile che i colloqui tra don Vito e i Carabinieri erano iniziati ben prima della strage del 19 luglio (“se lei continua a parlarci con questa gente...”). Dalle date, non si può scappare.

Fine luglio 1992

Da una fonte confidenziale del maresciallo Antonino Lombardo, tale Francesco Brugnano, il Ros apprende l'indicazione che, per arrivare alla cattura di Riina, e' necessario guardare alla famiglia mafiosa della Noce, guidata da Raffaele Ganci. Viene per questo costituito un gruppo operativo speciale comandato da Sergio De Caprio, al secolo Capitano Ultimo.

Primi di agosto 1992

C'è un momento di vuoto, di stasi. Don Vito si consulta anche con il figlio Giovanni, avvocato. Vuol sapere se ci sono realmente le condizione giuridiche per la revisione del maxiprocesso e la revoca della confisca dei beni ai mafiosi, che sono poi le uniche due cose che importano a Riina. Racconta Giovanni: “Dopo via D'Amelio (…) lui poi mi chiamò, era a Palermo, era sera. Disse: - Vieni a casa, ti devo parlare. - (…) Io andai e mi disse: - Facciamoci una passeggiata a monte Pellegrino. E' assai che non vedo monte Pellegrino. - E ci mettemmo in macchina, ovviamente guidavo io. Sembrava molto più... molto più sciolto. (…) Ed esordì con questa frase mentre io guidavo: - Tu che sei avvocato, ma... che cos'è la revisione del processo? - Io chiesi: - Ma... processo penale? - (…) E gli spiegai che cos'era la revisione del processo penale. (…) E poi lui se ne uscì con una cosa che mi lasciò stralunato. Dice: - E allora si potrebbe fare la revisione del maxiprocesso! - Io lo guardai come se stesse parlando di fantascienza. (…) Ricordo che dissi: - Neanche Mussolini potrebbe farlo - (…) Lo esclusi completamente... come ipotesi di fare la revisione del maxiprocesso. Disse: - Ah! Va bene, ve bene... - E aveva tirato dalla tasca un pezzo di carta, arrotolato, a mo' dei temi o dei compiti che si entrano magari durante gli esami... questa specie di... come se fosse il classico rotolo... e poi mi disse, ancora continuando: - Ma... la legge penale non vale per il futuro da quando è stata introdotta? - Io dissi: - La legge penale dispone per l'avvenire ammesso che, in una normativa, ci siano degli elementi a favore di un soggetto che è stato condannato, il cosiddetto favor rei - E dice: - Allora, quindi, è assurdo confiscare i beni oltre il 1982 che è entrata in vigore la legge Rognoni-La Torre... - E io dissi a mio padre: - Ma tu mi hai parlato di una norma penale. La legge Rognoni-La Torre non sono norme penali, né amministrative. Quindi...- Dice: - Ma allora si potrebbe stabilire che vengono confiscati i beni oltre l'82 e tutti gli altri...- -Stabilire? Ci vuole una legge dello stato! In questo modo si può stabilire! Con un'apposita legge dello stato. Anche perché più volte la Cassazione si era espressa in senso negativo dicendo che la confisca del bene vizia il bene all'origine (...)- Lui cominciò a infastidirsi perché in pratica io gli diedi due risposte altamente negative”.
Sempre in macchina, il padre, sull'andamento della trattativa, gli rivela: “Quella cosa è andata avanti. Sono state fatte delle richieste dall'altra sponda a questi personaggi altolocati”.

Metà agosto 1992

Don Vito incontra Provenzano almeno due o tre volte. Stanno pensando ad una trattativa alternativa. Una seconda fase, per così dire. Una fase in cui Riina, da interlocutore, deve diventare l'obiettivo. Sarà Provenzano a prendere in mano le redini, sempre in accordo con il signor Franco. Entrambi verranno costantemente informati degli incontri con i Carabinieri. Spiega Massimo: “Mio padre dice: adesso conduco io il gioco”. Riina viene tagliato fuori. Il papello diventa carta straccia. Ora, sul piatto della bilancia, c'è ben altro.

22 agosto 1992

Don Vito ordina a Massimo di riprendere i contatti con i Carabinieri. Massimo telefona a De Donno per chiedere un nuovo incontro.

25 agosto 1992

Inizia ufficialmente la seconda fase della trattativa. L'incontro avviene sempre a Roma in via San Sebastianello 9. Mori e De Donno chiedono espressamente a don Vito la cattura di Riina. Niente più resa incondizionata dei super-latitanti: l'unico obiettivo è Totò U' Curtu. E' don Vito però che ora decide le regole del gioco. Sa anche lui che l'unica soluzione per sopire l'eco creata dalle bombe è far catturare Riina. Ma vuole avere garanzie a livelli altissimi. Vuole qualcuno che possa aggiustargli la propria situazione personale. E' lui ad avere in mano il coltello dalla parte del manico, ora. Senza di lui e l'appoggio di Provenzano, i Carabinieri sanno che non potranno mai arrivare da nessuna parte in tempi brevi. Don Vito insiste perché della cosa venga informato Luciano Violante. Lo considera l'uomo che ha letteralmente in mano la magistratura in quel momento. “Arrivate all'onorevole Violante ed io vi aiuto”, dice don Vito a Mori. I Carabinieri acconsentono. Il patto è stipulato: Provenzano e don Vito aiuteranno i Carabinieri ad arrestare Riina; i Carabinieri, con un tacito consenso, regaleranno l'impunità a Provenzano, che sarà libero di riprendersi in mano le redini di Cosa Nostra e di “sommergerla”, riportando la situazione all'equilibrio pre-Riina. Don Vito, da canto suo, per la sua opera di mediazione tra Provenzano e i Carabinieri, riceverà benefici personali in termini di patrimonio e di processi a suo carico.
(Continua)
Federico Elmetti

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